Bene super Mario. Ma le donne nel Governo?
Intervista a BergamoNews - 14 novembre 2011
Li conosce tutti. Personalmente. Ed è convinta che sarà una buona squadra di governo quella affidata a Mario Monti. Pia Locatelli, 62 anni, presidente del Partito Socialista Italiano, presidente dell’Internazionale Socialista Donne e già europarlamentare è la politica bergamasca che conosce molto bene chi è oggi alla guida dell’Italia.
Come giudica l’incarico affidato a Mario Monti per costituire il nuovo governo?
“Sono convinta che con grande rapidità si è messo in campo un governo capace di mettere in sicurezza il nostro Paese. Questa è la cosa più importante. Quindi il mio giudizio è ottimo”.
Non crede che un governo tecnico supplisca al ruolo che deve svolgere la politica?
“No. In questo momento era importante chiudere una pagina politica e mostrare ai mercati un Paese con una guida salda, sicura, competente. Una volta fuori dal pericolo potremo tornare a discutere. E poi questo è un governo tecnico, ma diventa politico a tutti gli effetti quando avrà la fiducia del Parlamento”.
Che persona è Mario Monti?
“L’ho conosciuto personalmente, è venuto ai nostri convegni della Fondazione Zaninoni a parlare di Europa. È una persona saggia, profondamente europeista. E per la sua squadra ha scelto persone molto preparate che vantano una profonda stima in Europa e nel mondo. C’è anche Giuliano Amato che è bravissimo”.
Una squadra che secondo il totoministri sarà quasi tutta al maschile però.
Sì, purtroppo. E sono molto dispiaciuta e sconcertata per questa cosa. In questo Paese non si pensa mai che la metà delle risorse è femminile. Abbiano donne competenti, brave, preparate. Anche se sconosciute, nominarne alcune potrebbe essere l’occasione giusta per dare spazio alla loro competenza. Eppure Amato è molto sensibile su questo tema delle donne. Vedremo”.
Tra i protagonisti di queste ore ha svolto un ruolo delicato e difficile anche il Capo dello Stato.
“Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente quando era europarlamentare. Avevamo gli uffici vicini e sono stata persino invitata ad una sua festa di compleanno. È un uomo che ha un senso altissimo delle istituzioni e del ruolo dell’Italia che viene prima di tutto. Ha saputo muoversi, nell’ambito delle sue competenze, con il giusto rispetto ed il necessario equilibrio. Una lezione di stile e di garbo, dobbiamo ringraziarlo ed essere orgogliosi di avere un presidente come lui”.
Ha approvato anche la scelta di nominare Monti senatore a vita prima di chiamarlo a formare un nuovo governo?
“Si nominano senatori a vita le persone che hanno dato lustro al nostro Paese. In Commissione Europea Monti veniva chiamato super Mario, era stato nominato commissario europeo prima da Berlusconi e poi riconfermato da D’Alema. Quindi una scelta bipartisan che riconosceva le capacità di Monti. E poi è stato un ottimo docente ed altrettanto bravo rettore. Il riconoscimento politico è giusto e Napolitano ha fatto bene ad aprirgli la strada istituzionale”.
Da presidente a presidente, sabato sera Berlusconi si è dimesso tra una folla che lo insultava e lo fischiava. Da socialista quella scena le ha ricordato l’uscita politica di Craxi dall’Hotel Raphael?
“Sì, mi ha ricordato quel triste episodio. Sono contenta che Berlusconi se ne sia andato, ma non avrei mai partecipato a queste manifestazioni. Le istituzioni sono cose serie, e se anche il nostro ex Presidente del Consiglio spesso ha svilito il suo ruolo con i suoi atteggiamenti, le persone non dovevano inferire così. A un errore, quello di Berlusconi, non se ne doveva aggiungere un altro, quello della gente”.
(Articolo di Davide Agazzi)
Tunisini al voto per l’Assemblea costituente dopo 23 anni di dittatura. C’e' un po’ di Praga nella Primavera araba
articolo sull'Avanti! del 30 ottobre 2011
Si è votato domenica 23 in Tunisia ed i risultati non sono immediati per la quantità di liste coinvolte nel processo elettorale: quasi 1.700 distribuite in 33 circoscrizioni, di cui 6 all’estero, per eleggere 218 Costituenti che hanno il compito di redigere la nuova Costituzione, a 55 anni dall’indipendenza dalla Francia e dopo 23 di dittatura di Ben Alì.
Dalla Tunisia è partita la Primavera araba, dopo che Ahmed Bouazzizi si è dato fuoco, probabilmente emulando il gesto di un altro giovane che l’aveva fatto alla fine degli anni ‘60: Ian Palach, che a sua volta aveva imitato i monaci buddisti scegliendo quel modo per protestare contro l’ingiustizia. Non molte persone hanno notato il parallelo e invece è un rifermento significativo, che aggiunge valore e significato alla prima sollevazione nella regione araba: la Primavera araba come la Primavera di Praga.
Al di là del primato temporale, la Tunisia si distingue dai Paesi della regione per la sua capacità di gestione della transizione che ha portato rapidamente e pacificamente alle elezioni.
La fase di transizione ripete in una certa misura il nostro percorso alla fine della guerra: elezione di un’Assemblea costituente, redazione della Costituzione, di nuovo al voto per eleggere il parlamento; i tempi per farlo pure: per la Costituente, a un anno dalla chiusura di un brutto periodo, per noi il fascismo, per loro la dittatura di Ben Alì; più rapidi i e le Tunisini/e nell’elezione del parlamento, che avverrà al più tardi entro un anno. Si può anche parlare della stessa voglia di partecipazione, la nostra più guidata dai partiti, la loro più “spontanea”.
Sono ben 81 i partiti che si sono registrati; ad essi si sono aggiunte liste indipendenti. Il sistema proporzionale puro favorirà la formazione di un’Assemblea alquanto frammentata. La libertà conquistata dopo decenni di regime autoritario ha dato origine a un panorama politico vivace, per non dire caotico, e ricco, per non dire iper-frammentato. Gli orientamenti ideologici e programmatici spaziano dalle posizioni neoliberiste del partito Afek Tounes alle formazioni marxiste-leniniste del Partito Comunista Tunisino dei Lavoratori.
Nella variegata offerta politica spiccano quattro partiti che raccoglierebbero il maggior numero di consensi. Il più accreditato dai sondaggi è Ennahda, il partito conservatore di ispirazione islamica messo al bando da Ben Alì nel 1989. Guidato dal leader storico Rachid Ghannoushi, tornato dall’esilio londinese durato ben 22 anni, è il partito accreditato come possibile vincitore delle elezioni. Impossibile quantificare la percentuale dei consensi persino ad elezioni avvenute e a urne chiuse. La censura contro questo partito e una certa resistenza all’onda islamica rendono reticenti le persone e difficili, persino non attendibili, i sondaggi. Il messaggio di Ennahda è a favore di un Islam moderato; ma è proprio questa insistenza sulla moderazione, che rasenta l’ossessione, a renderla sospetta.
Gli altri tre partiti maggiori sono riconducibili a orientamenti di centro sinistra: il Partito Democratico Progressista (Pdp) guidato da una donna, Maya Jbiry; il Partito del Congresso per la Repubblica, anche definito Polo Modernista, unica formazione capace di aggregare cinque diversi partiti; il Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà (Ettakatol), membro consultivo della Internazionale Socialista, che raccoglie i consensi più popolari. I primi due hanno chiaramente escluso un’alleanza con il partito islamico; Ettakatol non si sbilancia, non escludendo in questo modo un dialogo possibile con la voce dell’Islam che si definisce moderato e che indica nella Turchia un modello da imitare.
In attesa dei risultati è davvero difficile fare previsioni nei numeri e nei contenuti programmatici di una possibile alleanza, sempre che sia possibile parlarne dal momento che si tratta di eleggere l’Assemblea costituente.
Sono stata a Tunisi negli ultimi giorni prima delle elezioni ed ho assistito alla chiusura della campagna elettorale del Polo modernista e di Ettakatol. Ho incontrato le candidate di diversi partiti e ho discusso a lungo con loro. Sono numerose, quasi il 50%, perché la legge predisposta per questa elezione, che non sappiamo se sarà mantenuta per le future elezioni del Parlamento, prevede una presenza alternata di donne e uomini nelle liste bloccate. Se escludiamo il Polo Modernista, rispettoso della norma dell’equilibrio di genere anche nelle teste di lista - 16 donne e 17 uomini -, la stragrande maggioranza delle liste è capeggiata da uomini. L’unico risultato che sono in grado di prevedere è quello di un’Assemblea costituente almeno per l’80% maschile, come è il nostro Parlamento dopo sessant’anni di democrazia, certamente meglio di noi per la composizione dell’Assemblea costituente dove avevamo il 7% di donne. Che sia un buon inizio per la Tunisia?
Donne in parlamento, l'Italia come il Marocco. Gli straordinari effetti della primavera araba e i ritardi del nostro Paese
articolo sull'Avanti! del 9 ottobre 2011
Gli effetti positivi della Primavera Araba pare abbiano sfiorato anche la penisola che riunisce i Paesi più arretrati, dove l’esclusione delle donne dalla vita pubblica, in tutti i suoi aspetti, tocca estremi difficili da riscontrare in altre realtà del mondo.
Yemen, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Arabia Saudita occupano gli ultimi posti nella graduatoria mondiale della presenza delle donne nelle istituzioni e negli indici di sviluppo umano, confermando quanto l’ONU va ripetendo da alcuni anni: senza le donne le società non progrediscono.
Sorprendentemente ora in questa penisola del Medio Oriente, forse grazie al contagio della Primavera Araba, qualcosa si muove: persino in Arabia Saudita, il baluardo del divieto assoluto per le donne di occupare posti istituzionali, perché private del diritto di voto, ci sono timidi segnali di apertura. C’è spazio per qualche speranza? Difficile fare previsioni e soprattutto difficile parlare di libertà e di diritti per tutti, donne e uomini.
Per la verità i primi segnali di apertura risalgono a quasi quarant’anni fa, quando lo Yemen del Sud concesse alle donne il diritto di voto. Purtroppo i decenni scorsi sono stati piuttosto inutili per la causa femminile delle Yemenite. Nello Yemen unificato di oggi solo lo 0,5% dei posti nelle istituzioni, sia locali sia nazionali, vede presenze femminili, ad indicare che non sempre “l’anzianità delle conquiste” va di pari passo con l’avanzamento delle stesse. Non sempre la contiguità geografica aiuta, infatti ci sono voluti alcuni decenni perché l’esempio dello Yemen venisse seguito dal Qatar nel 1999, dal Bahrein nel 2002, dal Kuwait nel 2005 ... e infine, in questi giorni, dall’Arabia Saudita. Il tabù è caduto, certamente, ma questo non basta per garantire un percorso senza ostacoli verso la parità.
Il dibattito attorno alle concessioni fatte dal Re dell’Arabia Saudita davanti alla Shura, il Consiglio solo consultivo i cui membri sono scelti dallo stesso sovrano, è stato acceso ed ha visto le donne del mondo divise nel giudizio. Elettorato attivo e passivo nelle prossime elezioni municipali che si terranno tra quattro anni e possibilità per il Re di scegliere nomi femminili per la composizione della Shura nel 2013. Per la verità sono passi avanti così limitati da rendere difficile esprimere un qualche apprezzamento. Credo però che la caduta di un tabù vada sempre considerata positivamente, specialmente se è la conseguenza di azioni di “pioniere”.
Il riferimento è alla campagna lanciata da un gruppo di donne dell’Arabia Saudita, una piccola élite del Paese, per opporsi al divieto di guida voluto dalle autorità religiose. L’appuntamento per la sfida, raccolta da qualche decina di coraggiose, è stato lo scorso 17 giugno. Pare che la giornata abbia lasciato il segno. C’è infatti una relazione tra la campagna contro il divieto e le concessioni reali, essendo la prima l’embrione di una campagna più larga per la richiesta di diritti a favore delle donne.
L’esperienza del mondo ci insegna che il percorso delle donne verso la parità è accidentato, variegato, mai nulla è conquistato con facilità e una volta per sempre. L’Italia del berlusconismo ne è la conferma.
In questi giorni si è svolta a Rabat, Marocco, una riunione regionale dell’Internazionale Socialista Donne per discutere del contributo femminile alla costruzione della democrazia nei Paesi toccati dalla Primavera Araba. Il Marocco ha risposto alle prime manifestazioni di protesta con una riforma costituzionale che prevede la riduzione dei poteri del Re e l’ampliamento di quelli del Parlamento e del Primo Ministro; l’indipendenza del sistema giudiziario e il riconoscimento della lingua berbera come lingua ufficiale insieme all’arabo; la costituzionalizzazione del principio di uguaglianza tra uomini e donne.
Il principio paritario ha trovato espressione nella legge elettorale che prevede una lista nazionale di novanta seggi destinati esclusivamente alle donne (due terzi) e alla gioventù (un terzo). Non è molto se pensiamo che nell’insieme la lista rappresenta il 20% dei seggi; è però un punto da cui partire per costruire percentuali più alte attraverso presenze femminili nelle liste delle circoscrizioni locali. Alcune organizzazioni femminili ed esponenti di partito hanno suggerito il voto contrario alla legge perché ritenuta insufficiente. Mi è stato chiesto un parere ed ho raccontato quanto è avvenuto nel Parlamento italiano dove nel 2006 la coalizione di centrosinistra all’opposizione ha bocciato la quota del 25% perché ritenuta inadeguata, dando così una mano ai franchi tiratori del centrodestra. La legge non è passata. In questa legislatura le parlamentari raggiungono a malapena il 20%.
Mi chiedo ancora oggi chi sia stato sconfitto da quel voto, se il centrodestra o le donne. La risposta è aperta, ma io avrei votato la legge.
Il lavoro delle donne è essenziale per crescere
Intervento su Bergamonews in merito al dibattito lanciato da Confindustria Bergamo sul tema donne e lavoro - settembre 2011
A parole tutti sono consapevoli della assoluta necessità della crescita per fronteggiare i gravi problemi di deficit e del debito italiani, che non possono essere risolti solo con i cosiddetti tagli, più o meno orizzontali.
L'Italia cresce meno di altri anche a causa del suo tasso di occupazione, in media basso perché è basso il tasso di occupazione femminile, oltre che degli e delle ultracinquantenni.
Essenziale per crescere è il lavoro delle donne. Non sto facendo un discorso da femminista, anche se lo sono. Lo dice l’Economist, rivista non certo femminista: negli ultimi anni l’incremento dell’occupazione femminile nei cosiddetti Paesi sviluppati ha contribuito alla crescita del Pil globale più dell’intera economia cinese. Lo dice l’Onu, che ripete in continuazione che pari opportunità e sviluppo vanno di pari passo, a tal punto che lo spreco di risorse femminili è una delle ragioni del mancato decollo economico di tanti Paesi, anche molto ricchi di risorse (vedi quelli arabi, ma anche appunto l’Italia).
Quali le cause e quali le azioni da intraprendere?
La scarsità dei servizi sociali è tra i principali ostacoli al lavoro delle donne. Mentre negli altri Paesi europei l’occupazione femminile aumenta al crescere dell’età dei figli, in Italia continua a diminuire. Addirittura per le donne non occupate la probabilità di entrare nel mercato del lavoro dopo la nascita di un figlio è praticamente nulla a qualsiasi età.
I servizi relativi all’infanzia - asili nido, scuole materne, mense scolastiche... - rimangono prioritari per le giovani generazioni, ma da noi la domanda per servizi all’infanzia è solo marginalmente soddisfatta (14.6%), mentre l'impegno che abbiamo preso con l'Europa era di arrivare al 33% dell’utenza potenziale entro il 2010. Nel Sud è molto peggio che al Nord: l'Emilia Romagna raggiunge il 27,7% e Firenze il 24%, mentre nelle regioni meridionali la media scende al 7,8%, con la Campania che registra soltanto l'1,8%.
Servizi per l'infanzia e più in generale servizi alle famiglie, servizi di “cura” a tutto campo. La cura delle persone anziane, ammalate, con problemi di handicap, cioè di tutte coloro che dipendono dall'assistenza di altri, sta diventando un tema ineludibile.
In Francia è stata istituita un’Agenzia nazionale per i servizi alle persone, che riguardano salute, qualità della vita, terapie fisiche, servizi di trasporto individuali, assistenza amministrativa..., una scelta che ha comportato l'aumento dell'occupazione femminile e, di conseguenza, del tasso di natalità.
In parallelo servono le politiche di conciliazione, che rendano compatibili la vita familiare e quella lavorativa: se gli orari dei nuovi posti di lavoro non sono conciliabili con i tempi di vita delle famiglie, tutti gli sforzi risulteranno inutili, o quantomeno depotenziati. Il tema della conciliazione non riguarda in esclusiva le donne ma entrambi i genitori. Non si tratta di pensare al part-time per le donne in modo che possano conciliare lavoro e famiglia, si tratta di politiche che abbiano presenti due temi: la condivisione del lavoro di cura tra i partner e conseguentemente la conciliazione tra lavoro e famiglia per entrambi. Gli interventi legislativi in materia di congedi di maternità e parentali dell’ultimo decennio sono stati senza dubbio significativi nelle intenzioni, meno nei risultati concreti, tant'è che poco più del 5% dei padri ne fa uso, rispetto al 100% delle madri. Ma quale padre può permettersi di perdere il 70% del salario per tre mesi? Oltre a questa, che non è di poco conto, ci sono altre ragioni per questo scarso utilizzo da parte dei padri, ma io voglio evidenziare l'aspetto più preoccupante: questi congedi sono rivolti ai lavoratori e alle lavoratrici che hanno occupazioni stabili mentre i giovani, uomini e donne, vivono esperienze di precarietà lavorativa. E si sa che i figli li fa chi è giovane, o meglio li farebbe, se potesse permetterselo.
Queste sono due misure che ritengo più urgenti, a cui si possono aggiungere altre, superando ad esempio il divario salariale che fa privilegiare il lavoro maschile a quello femminile; favorendo l'istruzione (più alto è il titolo di studio più alto è il tasso di occupazione femminile) e infine, ma bisognerebbe partire da lì, un cambio di cultura per superare gli stereotipi secondo i quali l'uomo produce e la donna fa figli. La realtà si sta trasformando, la cultura no, e questo rallenta anche le politiche, poche per la verità, che hanno tentato di migliorare la situazione.
Ps: Riporto un breve comunicato delle donne di "Se Non Ora Quando" di questi giorniLe donne italiane lavorano 60 ore alla settimana, più di tutte in Europa.
Solo il 46 % ha un’occupazione; la media europea è del 60%.
L'Italia è al 21esimo posto tra i Paesi industrializzati per l'indice di benessere delle donne madri.
3 milioni e mezzo sono le donne che non lavorano per assenza di servizi.
Solo il 18 % dei bambini trova posto nei nidi.
800.000 sono le donne licenziate o costrette a dimettersi per la maternità.
Se lavorano, le donne hanno salari del 30 % più bassi degli uomini a parità di mansioni.
Le donne anziane sono le più povere e percepiscono le pensioni più basse per avere accudito, nel corso della loro vita lavorativa, figli, nipoti, genitori.
Le donne giovani sono più precarie dei giovani uomini e più laureate. Pagheranno la precarietà: oggi con l'incertezza del futuro, domani con una pensione misera.
Le donne sono marginali nella vita pubblica, perfino più che in alcuni Paesi in via di sviluppo.