Licenziamenti per sole donne. La vicenda della fabbrica Ma-Vib
Articolo sull'Avanti! del 10 luglio 2011
Ero bambina, quindi alcune decine di anni fa, e ricordo l’aria cupa che si è respirata per un certo periodo nel mio paese, a qualche chilometro dalla città di Bergamo, per i licenziamenti in atto nell’azienda tessile che dava lavoro a gran parte degli abitanti della zona. Tutte le famiglie avevano almeno una persona che lavorava al Linificio e quindi i licenziamenti colpivano la maggioranza delle famiglie. Le cattive notizie arrivavano in successione perché i licenziamenti erano scaglionati. Non ricordo, forse non ho mai saputo, il motivo dello scaglionamento, ricordo con vivida chiarezza l’aria di attesa della “disgrazia” ed il respiro di sollievo quando si scampava al licenziamento dello scaglione. Le prime a “saltare” furono le donne più giovani, poi le altre donne; il dramma fu percepito gravissimo solo quando fu il turno dei padri di famiglia, che arrivò per ultimo.
Questo succedeva cinquant’anni fa. Ora il mondo è cambiato, ma forse solo superficialmente, in profondità le convinzioni e i modelli culturali sono gli stessi, la divisione sessuale del lavoro è ancora presente: agli uomini la produzione, alle donne la riproduzione. Cinquant’anni fa nel Nord Italia - al Sud era tutta un’altra storia - le donne che “non studiavano” entravano nel mercato del lavoro dopo l’obbligo scolastico e ne uscivano nella quasi totalità con il matrimonio, non al primo figlio. Era un modello culturale: ti sposi e ti dedichi alla casa e alla famiglia, quella che verrà. Quelle che non si sposavano continuavano a lavorare fuori casa fino alla pensione perché non avevano un uomo che le “mantenesse”. Il mondo nei decenni è cambiato: l’obbligo scolastico a quattordici anni, che ha beneficiato soprattutto le ragazze, gli elettrodomestici, la televisione, la pillola contraccettiva, qualche donna in più in parlamento, la prima ministra, Tina Anselmi al Lavoro, la legge sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la legge sull’aborto, una maggiore consapevolezza di sé, le donne che si sposano e in numero sempre minore lasciano il lavoro. Grandi progressi che si riteneva conseguiti per sempre, la vita nelle nostre mani, credevamo.
La vicenda della fabbrica di Inzago smentisce questa certezza e ci fa percorrere all’indietro questo processo, perché i licenziamenti delle sole donne confermano che il modello sociale di cinquant’anni fa permane, è ancora cultura diffusa e quando la crisi si fa sentire, le donne sono le prime a pagare perché il loro è lavoro “aggiuntivo”, secondo salario per aiutare il bilancio familiare, un di più che in tanti pensano di scoraggiare attraverso la proposta del quoziente familiare, il più efficace disincentivo al lavoro femminile. E’ innegabile che la crisi continui a far sentire i suoi effetti, con ricadute pesanti sulla occupazione, e che a volte la riduzione del personale sia necessaria. Ma l’emergenza lavorativa, che sarebbe sbagliato negare, non c’entra con il licenziamento delle sole donne ad Inzago. Quella dei titolari della Ma-Vib, nonno, figlio, nipote, è una decisione più ideologica che aziendale: dovendo ridurre il personale si fa una scelta chiara a favore appunto della divisione sessuale del lavoro: quello produttivo agli uomini e quello riproduttivo alle donne. Non c’entrano le linee produttive da sopprimere o le competenze necessarie all’azienda, l’ideologia prima di tutto e il modello sociale tradizionale a fare ancora da bussola nelle scelte aziendali.
D’altro canto perché dovremmo meravigliarci se, a parità di competenze, il divario salariale medio tra uomini e donne è attorno al 17%, se il gap tra occupazione maschile e femminile è pari al 20%, se a fronte di una richiesta della UE di asili nido che soddisfi almeno il 30% della fascia d’età 0-3 anni non offriamo nemmeno la metà di quanto previsto, se le misure di conciliazione tra vita familiare e vita professionale sono pressoché inesistenti e comunque pensate come se riguardassero esclusivamente le donne?
Il nonno, il figlio, il nipote di Inzago, la “proprietà” - ma non ci sono donne in quella famiglia? - sono accusati dal sindacato di avere motivato la loro scelta con il fatto che le donne possono, o devono, stare a casa e curare i figli. Successivamente i titolari hanno negato di aver mai pronunciato la frase incriminata. Mi sembra irrilevante l’aspetto formale della prova della discriminazione, i tre hanno fatto quello che in tanti pensano, a partire dagli stessi lavoratori dell’azienda che temo abbiano considerato il licenziamento delle sole donne il male minore visto che in pochi hanno partecipato alla manifestazione di protesta.
Non credo che questa sia una lotta degli uomini contro le donne, e non credo che gli uomini, che conservano il posto di lavoro mentre le donne lo perdono, possano essere considerati vincitori. Ci perdono tutti, ci perdiamo tutti, perché siamo tornati a cinquant’anni fa e non casualmente la nostra posizione di fanalino di coda in Europa nelle statistiche del lavoro femminile e nel tasso di crescita ancora una volta si conferma.
Cos’è cambiato rispetto a cinquant’anni fa in Lombardia, la regione apparentemente più ricca ed avanzata d’Italia? Poco, tristemente poco.
A Milano hanno contato le donne
Articolo sull'Avanti! del 12 giugno 2011
L’aria che si respira dopo i ballottaggi delle recenti elezioni amministrative presenta novità su molti fronti, uno di questi riguarda direttamente le donne.
In primis voglio ricordare le nostre due compagne elette Sindache a Codigoro e a Stella, due bandierine significative per noi socialisti. Sono state il segno di altre buone notizie su questo versante.
Fassino, vincitore a Torino al primo turno, ha presentato una Giunta fatta per metà di uomini e per metà di donne. Pisapia e de Magistris si sono affrettati a precisare che sceglieranno come loro vice una donna.
Il risultato di Milano pesa più di tutti gli altri per il suo valore simbolico. Le ragioni sono le più diverse: dire Milano significa dire la capitale morale del Paese, significa dire la parte d’Italia che era, fino a qualche anno fa, proiettata in Europa, Milano grazie a noi socialisti è espressione del municipalismo solidale ed insieme efficiente, Milano capitale della cultura, Milano capitale della moda, Milano che ha espresso una donna presidente del tribunale, una donna sindaca, una donna segretaria generale della CGIL… Il tema della presenza femminile nelle liste ha contribuito a marcare una differenza importante tra centrosinistra e centrodestra: attorno al 20% nelle liste di Lega e PdL, più del doppio per la coalizione di centrosinistra. Il centrodestra, oltre a Letizia Moratti, avrà una sola donna in Consiglio comunale, il centrosinistra molte di più e non solo in Consiglio. Per la Giunta di Milano Pisapia anticipa una composizione equilibrata di uomini e donne, per confermare, forse anche migliorare, una presenza femminile di tutto rispetto: su 28 consiglieri nella coalizione di centrosinistra di Milano, sono 10 le donne elette, conseguenza di una composizione delle liste con il 44% di donne e il 56% di uomini – media che avrebbe sfiorato il 50% se non fosse stato per l’Italia dei Valori che, con un esiguo 21% di candidate in lista, ha abbassato la percentuale dell’intera coalizione.
Non sono ancora disponibili tutti i dati e quindi per ora non è possibile un’analisi della presenza di uomini e donne in tutte le realtà in cui si è votato in questa tornata, ci vorrà ancora un po’ di tempo e solo quando tutti saranno noti potremo valutare insieme la composizione dei Consigli e delle Giunte che i nuovi Sindaci (ma dove sono le Sindache) si apprestano a nominare.
Credo però di poter affermare che i miglioramenti che notiamo, e di cui siamo felici, non rendono meno evidenti le difficoltà che le donne devono ancora affrontare nelle competizioni elettorali. Sarebbe interessante analizzare la distribuzione delle preferenze tra i candidati e le candidate rispetto alla collocazione in lista, oppure la quantità delle risorse che hanno “investito” in questa competizione, solo per citare due possibili ambiti di indagine.
L’argomento è molto complesso e merita rigore nell’analisi se vogliamo davvero contribuire a creare le condizioni per realizzare quella che viene definita “democrazia paritaria”.
Credo però di poter affermare con una certa sicurezza che se queste elezioni hanno dimostrato che “un’altra Italia è possibile”, questo è avvenuto anche grazie al segno di cambiamento che le donne di “se non ora quando” hanno rappresentato scendendo così numerose nelle strade e piazze italiane il 13 febbraio, solo tre mesi prima del voto.
A Milano l’effetto è stato ancor più consistente, e già nella manifestazione in piazza della Scala del 29 gennaio, anticipatrice di quella del 13 febbraio al Castello Sforzesco, avevamo detto che “Un’altra Italia è possibile”.
Il 17 maggio, una giornata davvero speciale
articolo sull'Avanti! del 29 maggio 2011
La giornata mondiale contro l’omofobia. Ci sono voluti 959 giorni per discutere ed infine bocciare la legge sulla omofobia.
Questa è stata la celebrazione tutta italiana della giornata contro l’omofobia avvenuta in Commissione Giustizia della Camera. L’hanno bocciata il PdL, la Lega e l’Udc.
Il messaggio del Presidente Napolitano in occasione della giornata non è servito a nulla, anzi Lega, PdL e Udc hanno fatto uno sberleffo al messaggio che esprimeva preoccupazione per il persistere di discriminazioni e comportamenti ostili nei confronti di persone con orientamenti sessuali diversi; caduto nel vuoto anche l’invito a trovare misure efficaci per abbattere questo tipo di discriminazioni.
Ha gioito il ministro Giovanardi, sempre coerente nel sostenere le posizioni più arretrate sui temi dei diritti civili e delle libertà individuali; si è seccata la ministra Carfagna che ha anticipato il suo voto favorevole quando la proposta di legge passerà all’Aula.
Quella bocciata in Commissione è una legge composta da due articoli il cui testo non prevede il reato di omofobia ma introduce aggravanti per i reati commessi a scopo discriminatorio: una civilissima e prudentissima norma di stampo europeo che ci metterebbe in linea sia con le prescrizioni della nostra Costituzione sia con la Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, ora compresa nel Trattato di Lisbona e quindi vincolante.
Mi auguro che l’Aula assuma una posizione diversa favorevole alla legge. Conto sul fatto che i risultati delle recenti elezioni amministrative portino a qualche ripensamento rispetto al fondamentalismo di questa maggioranza; conto soprattutto sul voto degli ex socialisti la cui matrice libertaria potrebbe non essersi del tutto cancellata.
La vittoria al referendum sulla 194 compie trent’anni. Trent’anni fa, il 17 maggio 1981, abbiamo detto no all’abrogazione della legge 194 che rende possibile, a certe condizioni, l’interruzione volontaria della gravidanza. Pochi si sono ricordati di questo compleanno, tutti presi dalle vicende elettorali, ma è una data che merita attenzione soprattutto perché la legge si è dimostrata utilissima.
In trent’anni, dal 1981 al 2011, gli aborti si sono dimezzati passando da 230 mila a 115 mila: questa è la grande conquista delle donne italiane, l’aver fatto dell’Italia il Paese con il più basso tasso di aborti in Europa e nel mondo, pari a otto per ogni mille donne.
Quel referendum ha segnato l’affermazione della libertà e dell’autonomia delle donne sul proprio corpo ed è motivo di grande orgoglio per noi, donne non più giovani, impegnate in quella battaglia di civiltà. Ne rivendichiamo la maternità.
Otto aborti per mille donne sono la prova che la 194 è una legge efficace, ma i nostri obiettivi devono essere insieme la scomparsa dell’aborto e la maternità responsabile e accessibile. Purtroppo per tante, troppe giovani donne, costrette a scegliere tra famiglia e carriera, la maternità sta diventando un lusso che non possono permettersi. Su questo aspetto non possiamo dirci soddisfatte di una legge che porta nel suo titolo la tutela sociale della maternità e nel suo primo articolo la garanzia del diritto alla procreazione cosciente e responsabile.
Dobbiamo riprendere insieme la battaglia per il diritto alla maternità nel suo significato più pieno.
Marina e Rita, due Sindache socialiste. Prima delle elezioni amministrative uno strampalato articolo di Giuliano Ferrara per tirare la presunta volata di Letizia Moratti si apriva e si chiudeva con una frase che tradisce una certa carica di misoginia, “non tutte le donne vengono per nuocere”, e diceva che Letizia Moratti è una di quelle. Quello di Ferrara era un pensiero sbagliato per due ragioni: perché la candidatura di Moratti ha nociuto nelle elezioni milanesi e perché la frase rivela una mentalità arretrata, sbagliata, stereotipata, da vecchio proverbio del tipo “chi dice donna dice danno”, che francamente lascia allibiti, soprattutto credevamo fosse retaggio del passato remoto. Giuliano Ferrara è un uomo delle cui idee non condivido praticamente nulla, ma non si può dire che manchi di intelligenza. Ma anche l’intelligenza può convivere con stereotipi e pregiudizi, come il suo caso dimostra. E forse - perché la giustizia deve fare il suo corso e non si emettono condanne prima che l’abbiano fatto i giudici - lo dimostra anche la triste vicenda di Strauss-Kahn, uomo di grandi capacità e intelligenza che nel passato pare abbia già mostrato una qualche difficoltà a dominare i suoi istinti sessuali. Non è il suo essere uomo di potere che rende meno gravi le sue eventuali responsabilità. In questo gli USA sono più egualitari di noi: la legge è uguale per tutti. Vedremo.
Sta di fatto che in queste elezioni qualche bella notizia per le donne c’è: più donne elette, soprattutto o quasi esclusivamente nel centrosinistra, a Milano, Bologna, Torino... Anche noi socialisti abbiamo qualche ragione d’orgoglio: Rita Cinti, coordinatrice nazionale delle donne socialiste, è stata confermata Sindaca di Codigoro e Marina Lombardi è stata eletta Sindaca di Stella, il paese natale di Pertini. E’ una bella eredità la sua.
Se non ora quando?
lettera a L'Eco di Bergamo del 17 febbraio 2011
Gentile Direttore, la ringrazio per aver dato tanto spazio alla manifestazione delle donne di domenica raccontando sia di quella di Bergamo sia di quella nazionale. Spero che domenica rappresenti l'inizio di un percorso per una piena cittadinanza delle donne. Come ha detto Savino Pezzotta, questa mobilitazione, così ricca di numeri e contenuti, indica che anche per il nostro Paese è possibile una nuova primavera, in cui il protagonismo delle donne si affermi. Donne insieme agli uomini perché in piazza insieme a noi c'era anche una buona presenza maschile ad indicare che il problema del machismo nel nostro Paese è problema che riguarda tutti, uomini e donne. So che può sembrare assurdo, ma io ringrazio Berlusconi che ha il “merito” di aver fatto emergere, in modo estremo, esasperato, perché l'uomo non ha misura, cosa significa nella vita di un Paese essere portatori, nel suo caso, e vittime, nel caso delle donne, della cultura maschilista e quali sono le conseguenze di questo costume. Il maschilismo è fenomeno trasversale agli schieramenti politici e quelle che un tempo chiamavamo classi sociali. Ne sono portatori gli uomini e vittime, a volte conniventi, le donne. Molto spesso è fenomeno nascosto perché si sa che ce se ne dovrebbe vergognare. Berlusconi non se ne vergogna, al contrario, e in questa sua spudoratezza trascina altri ed altre. Ma il nostro Paese ha bisogno di sobrietà, rispetto delle persone e delle istituzioni, ha bisogno delle donne e delle loro competenze... categorie sconosciute al nostro Presidente del Consiglio. Non le scrivo però per affermare principi sui quali sono certa che conveniamo. Le scrivo perché l'articolo in prima pagina di Lucio Brunelli ha, mi pare sbagliando, voluto inserire elementi di divisione, di distanza tra la piazza di Roma di domenica ed una “certa cultura femminista radical-chic, istericamente anticlericale degli anni '70”. Si sbaglia proprio Lucio Brunelli quando fa questa affermazione, si sbaglia perché, a detta di tante presenti, insieme a suor Eugenia Bonelli, la più applaudita è stata Alessandra Bocchetti, esponente storica di quella “cultura femminista radical-chic” dallo stesso definita “istericamente anticlericale degli anni '70”. E' un peccato voler dividere una piazza, un movimento, un milione di donne tra brave e… meno brave, tra pacate ed isteriche, tra sagge e anticlericali. Ci prova già Berlusconi, anche lui impropriamente, a dire che ci sono donne bacchettone e donne libere, non aggiungiamo errori ad errori, mostrando divisioni che in piazza non c'erano. Anzi c'erano donne unite nell'affermare la propria dignità e il diritto ad una cittadinanza piena la cui realizzazione aiuterà il nostro a diventare un Paese normalmente europeo.