Onorevoli Colleghi! Nel mese di ottobre 2012 sono state presentate a Bruxelles le «raccomandazioni» del cosiddetto Gruppo Liikanen (elaborate sotto la direzione del Governatore della Banca centrale finlandese ed ex commissario europeo Erkki Liikanen), che era stato incaricato dal commissario Barnier di studiare alcuni possibili interventi sulla struttura del settore bancario. Si tratta, in sintesi, della separazione obbligatoria, all’interno dello stesso gruppo bancario «universale», del trading ad alto rischio (che richiederebbe una capitalizzazione a parte) dal resto delle attività di deposito; una possibile «separazione aggiuntiva», allargata anche ad altre attività meno rischiose, nel caso di attuazione di piani di salvataggio e risoluzione di crisi bancarie; una revisione del modo in cui sono utilizzati i piani interni di ristrutturazione e salvataggio come strumenti di risoluzione delle crisi; una revisione dei requisiti di capitale per gli attivi usati nel trading e per i prestiti nel settore immobiliare; il rafforzamento della governance e del controllo delle banche.
Il rapporto peraltro si limita a ipotizzare una separazione dell’attività bancaria ordinaria dal proprietary trading di titoli e derivati e dalle attività a questo strettamente legate. Le attività separate di trading e depositi potranno coesistere nella stessa banca, ma dovranno essere «finanziate e capitalizzate separatamente». Il che appare senza dubbio positivo e auspicabile, ma insufficiente a risolvere i problemi di un sistema in cui, come ha rilevato lo stesso Liikanen, «i profitti sono privati ed i costi sono pubblici».
La separazione fra le attività bancarie di retail e trading non costituisce peraltro una novità. Negli Stati Uniti d’America (USA) del New Deal una riforma in tal senso (la legge Glass-Stagall Act del 1933 che prevedeva la netta separazione tra banche commerciali e banche d’affari) era stata adottata come risposta alla grande crisi del 1929 ed era rimasta in vigore per circa settanta anni. In seguito è stata soppressa nel 1999 durante la Presidenza Clinton (Gramm-Leach-Bliley Act) e tale intervento è stato considerato al tempo stesso causa e moltiplicatore di quel processo di finanziarizzazione dell’economia che, insieme alla mancanza di controlli adeguati, ha determinato gli squilibri che sono alla base dell’attuale crisi.
In Italia la legge elaborata da Donato Menichella nel 1936, oltre a stabilire un’analoga separazione, poneva dei limiti molto stretti tra attività bancarie a breve termine e a medio o lungo termine. Alle banche commerciali era poi proibito detenere quote di partecipazione (ancora meno di controllo) nelle aziende non bancarie ed era altresì vietata qualsiasi attività di trading su titoli e valute. Nel 1993 è stato approvato il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, che ha rivoluzionato l’intera struttura del sistema bancario, eliminando la distinzione introdotta nel 1936: da una regolamentazione rigorosa si passava alla «banca universale», a cui erano lasciati enormi margini di azione.
In seguito alla grave crisi finanziaria verificatasi nel 2008 soprattutto negli USA alcune personalità hanno invocato profonde modifiche del quadro normativo relativo alla struttura e all’operatività del sistema bancario. Fra queste Paul Volcker (ex Governatore della Federal Reserve) e Mervyn King (Governatore della Banca d’Inghilterra), che hanno proposto di ritornare alla separazione tra banche commerciali e banche d’investimento.
Due economisti del Fondo monetario internazionale, Jaromir Benes e Michael Kumhof, hanno simulato, in un modello per l’economia USA, la separazione delle attività delle banche, applicandola a diverse aziende. Dallo studio è emerso che la sua adozione aumenterebbe il prodotto interno lordo (PIL) del 10 per cento, porterebbe l’inflazione vicina allo zero senza rischi di deflazione, ridurrebbe i cicli economici, azzererebbe i rischi di «corsa agli sportelli» (e quindi la necessità di garanzie statali, che incentivano le banche ad assumere troppi rischi), e farebbe calare debiti pubblici e privati. Il denaro raccolto con i conti correnti non potrebbe essere usato per fare credito e creare moneta; andrebbe investito in moneta o depositi alla banca centrale (o sicuri titoli di Stato a tasso zero). La riserva, insomma, dovrebbe essere del 100 per cento. Tutti i tipi di prestiti dovrebbero essere offerti da altre aziende (investement trust), eventualmente specializzate, con soldi raccolti a questo scopo, attraverso quote di azioni, obbligazioni o altri strumenti.
In un articolo pubblicato su Les Echos, Jean Arthuis, ex Ministro delle finanze francese e Jean Peyrelevade, ex presidente del Credit Lyonnais, sostengono che «bisogna avvicinare le banche all’economia reale, metterle al riparo della volatilità e dei rischi dei mercati, bloccare la loro concentrazione e limitare la loro espansione al di fuori della zona euro». Per Arthuis e Peyrelevade è necessario «avviare una riflessione europea sulle eventuali separazioni da organizzare tra banche di retail e banche di mercato». Anche perché, sottolineano, se gli istituti di credito diventeranno sempre di più «banche di mercato» si allontaneranno dalla loro mission originale che è quella di finanziare l’economia reale e di garantire il buon funzionamento dei circuiti di pagamento per «speculare» e di conseguenza «aumentare il livello di rischio globale fino a superare in alcuni casi le capacità di intervento dello Stato garante».
La banca insomma deve fare la banca, evitando operazioni speculative: il trading su valute e titoli non deve rientrare fra le sue attività. Riacquisendo la sua funzione specialistica, le dovrebbero essere precluse le attività di banca-assicurazione e gestione del risparmio (fondi comuni di investimento e prodotti affini), svolte invece da altri operatori, distinti dalla prima non solo sotto il profilo giuridico ma anche organizzativo. In altri termini, se il risparmiatore intende collocare i propri risparmi in un conto corrente, libretto a risparmio, certificato di deposito, pronti contro termine, si rivolge alla banca, ma non deve essere esposto ai rischi derivanti da attività speculative.
Dal punto di vista normativo, prevedere la semplice separazione delle attività fra le banche commerciali e quelle d’affari non è tuttavia sufficiente, posto che non supera la criticità di un unico soggetto che esercita seppur con limitazioni la duplice attività. Occorre quindi intervenire in modo incisivo, distinguendo e separando i soggetti che operano sul mercato, a tal fine modificando il testo unico di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385.
Al riguardo si dovrebbe precludere alla banca l’esercizio di attività finanziaria, modificando fra l’altro l’articolo 10, comma 3, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993 («Le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali. Sono salve le riserve di attività previste dalla legge»).
PROPOSTA DI LEGGE
a) prevedere, per le banche commerciali autorizzate ad operare sul mercato italiano, il divieto di svolgere, direttamente o indirettamente, attività proprie delle banche d’affari, società di intermediazione mobiliare e, in generale, di tutte le società finanziarie che non sono autorizzate a
effettuare la raccolta di depositi tra il pubblico, nel caso gli asset bancari detenuti per trading e per la vendita eccedano il minore fra il 20 per cento degli asset totali della banca o una soglia massima di 10 miliardi;
b) prevedere distinti titoli abilitativi per le banche commerciali e le banche d’affari;
c) prevedere, per le banche commerciali, il divieto di operare in condizioni di disequilibrio delle scadenze delle attività di raccolta e di impiego delle risorse finanziarie e, in particolare, per le banche che effettuano la raccolta dei depositi a breve termine, il divieto di erogare finanziamenti a medio o a lungo termine;
d) prevedere il divieto di ricoprire cariche direttive e di detenere posizioni di controllo nelle banche commerciali da parte dei rappresentanti, dei direttori, dei soci di riferimento e degli impiegati delle banche d’affari, delle società di intermediazione mobiliare e, in generale, di tutte le società finanziarie che non sono autorizzate a effettuare la raccolta di depositi tra il pubblico;
e) stabilire sanzioni proporzionate e dissuasive, compresa la revoca dell’autorizzazione all’attività bancaria per le banche che non ottemperano a quanto previsto dalle lettere a), b), c), e d).