27 gennaio 2014 Nella ricorrenza del Giorno della Memoria
Signora Presidente, come ho già detto in quest’Aula, i miei primi ricordi dell’Olocausto li devo ai racconti di uno zio, scampato al campo di sterminio. Ero piccola e solo da adulta mi sono resa conto che quelle che a me apparivano come scene di un brutto film per lui erano un’ossessione, qualcosa che neanche il tempo avrebbe lenito e meno che mai fatto dimenticare.
La Giornata della Memoria non serve a chi ha vissuto quei giorni, ai loro parenti, al popolo ebraico: loro non dimenticano. Serve a noi, e quello che celebriamo oggi non è uno stanco rito e neanche un’inutile commemorazione. Anzi, mai come adesso il 27 gennaio assume un significato che va oltre il simbolo, oltre la memoria.
Sessantanove anni fa venivano abbattuti i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz e il mondo occidentale seppe quello che forse si sospettava ma la cui portata non era immaginabile. La condanna di quell’orrore, che portò allo sterminio di oltre 6 milioni di persone e all’atroce e scientifica eliminazione di uomini, donne, bambini, bambine, dovrebbe essere unanime e scontata. Non dovrebbe esistere, nel nostro bel mondo civilizzato, qualcuno che osi mettere in discussione il genocidio o, peggio ancora, augurarsi che possa ripetersi.
E, invece, non è così. Nei giorni scorsi a Roma si sono verificate delle gravissime intimidazioni nei confronti della comunità ebraica, che fanno vergogna al nostro Paese. Ovunque, nelle nostre città, tornano scritte razziste, che non possono semplicemente essere liquidate come l’opera di qualche imbecille. In momenti di crisi e malessere sociale, infatti, c’è sempre la tendenza a cercare un capro espiatorio, che è sempre l’altro, l’ebreo, l’immigrato, il disabile, l’omosessuale, i rom. Per questo non bisogna sottovalutare questi odiosi fenomeni e permetterci di abbassare la guardia. La spirale d’odio, se non viene subito fermata, genera maggiore odio, ed il passo verso la violenza è breve, brevissimo.
Il nostro dovere non è solo quello di condannare e di prendere le distanze, ma anche e soprattutto di impedire che certi episodi possano ripetersi. La conoscenza e la consapevolezza di quanto è avvenuto è il primo passo contro i rigurgiti di negazionismo, e quanto è stato fatto e si fa nelle nostre scuole è un importantissimo lavoro che si fa per abbattere l’ignoranza.
La tragedia della deportazione, del genocidio, così come l’adozione delle leggi razziali fanno parte della nostra storia, del nostro passato. È la nostra pagina nera, la nostra vergogna, e non appartiene solo al popolo ebraico e alla Germania nazista ma, come afferma Elena Loewenthal, siamo tutti noi che dobbiamo ricordarlo, in Italia come in Europa, perché quella è storia imprescindibile della nostra identità collettiva.
Così come non possiamo dimenticare che, accanto al genocidio degli ebrei, c’è stato anche il Porrajmos zingaro, la soppressione di omosessuali, disabili e così via, ed è un dovere ampliare il ricordo a tutte le vittime dei campi nazisti. E questo ricordo congiunto non diminuisce e non diluisce la tragedia della Shoah ma la incardina, al contrario, in una memoria vasta del fenomeno totalitario nazifascista. Ma non solo, perché lega insieme diverse memorie e diverse tragedie, anche tragedie di oggi come quella del Ruanda e dell’altro ieri, come quella armena degli anni Dieci.
Conoscere e sapere tutto, però, a volte non basta. Il seme dell’intolleranza, che oggi trova amplificazione in Internet e nei vari social network, fa presto ad attecchire, e gli episodi razzisti a moltiplicarsi per opera di sciocchi emuli. Nei confronti di questi episodi non ci può essere tolleranza né comprensione. Bisogna intervenire subito con unanime, decisa condanna, perché è compito nostro, dei nostri figli e delle nostre figlie e delle generazioni che verranno tramandare la memoria, tramandare l’orrore affinché quanto è avvenuto non possa davvero accadere mai più.