PROPOSTA DI LEGGE
d’iniziativa dei deputati
SERENI, DORINA BIANCHI, CAPUA, FITZGERALD NISSOLI, LOCATELLI, RICCIATTI, SQUERI, LUCIANO AGOSTINI, ROBERTA AGOSTINI, ALBANELLA, ALBINI, AMODDIO, ANTEZZA, ASCANI, BARGERO, BASSO, BECATTINI, BENAMATI, BENI, BERGONZI, BERLINGHIERI, MARIASTELLA BIANCHI, BINETTI, BLAZINA, BOCCADUTRI, BONACCORSI, BONOMO, BORGHI, BOSSA, BRAGA, PAOLA BRAGANTINI, BRANDOLIN, CAMANI, CAPONE, CAPOZZOLO, CARDINALE, CARLONI, CARNEVALI, CAROCCI, CARRA, CARROZZA, CASATI, CASELLATO, CASTRICONE, CAUSIN, CENNI, CIMBRO, COMINELLI, COSCIA, COSTANTINO, D’ALIA, DE MARIA, DE MENECH, MARCO DI MAIO, DI SALVO, D’INCECCO, DONATI, D’OTTAVIO, EPIFANI, ERMINI, FABBRI, GIANNI FARINA, FAVA, FEDI, FERRARI, CINZIA MARIA FONTANA, FONTANELLI, FOSSATI, FRAGOMELI, FUSILLI, GADDA, GALGANO, GARAVINI, GHIZZONI, GIACOBBE, GIULIANI, GIULIETTI, GNECCHI, GRASSI, GREGORI, GRIBAUDO, IACONO, INCERTI, IORI, KRONBICHLER, LA MARCA, LACQUANITI, LATTUCA, LODOLINI, MAESTRI, MAGORNO, MALISANI, MANZI, MARANTELLI, MARCHETTI, MARCHI, MARCON, MARIANI, MARIANO, MARRONI, MARTELLA, MARTELLI, MARZANO, MAZZOLI, MELILLA, MELILLI, META, MINNUCCI, MIOTTO, MOGNATO, MONGIELLO, MONTRONI, MORANI, MORETTO, MOSCATT, MURA, MURER, NACCARATO, NARDI, NARDUOLO, NICCHI, PAGLIA, PARRINI, PATRIARCA, PELLEGRINO, PES, PETITTI, PIAZZONI, PICCIONE, PICCOLI NARDELLI, PLACIDO, POLLASTRINI, PRINA, QUARTAPELLE PROCOPIO, REALACCI, RIGONI, ROCCHI, ROMANINI, PAOLO ROSSI, ROSSOMANDO, ROTTA, RUBINATO, GIOVANNA SANNA, SBROLLINI, SCHIRÒ, SCUVERA, SENALDI, SGAMBATO, SIMONI, TARTAGLIONE, TERROSI, TIDEI, TULLO, VALERIA VALENTE, VAZIO, VENITTELLI, VEZZALI, VILLECCO CALIPARI, ZAMPA, ZARDINI
Istituzione della Giornata in memoria delle donne nella Resistenza
Presentata l’11 novembre 2014
Onorevoli Colleghi! A coloro i quali pensano che si possano attraversare periodi di grave travaglio, di profondi cambiamenti e di vera e propria trasformazione nei quali non vi sia posto per una «questione femminile», si imputa di dare torto la storia: la storia, però, non dà minore torto a chi crede che si possa realizzare un movimento reale per l’emancipazione della donna indipendentemente dai processi generali dello sviluppo della democrazia e della lotta per il progresso. Prima di parlare delle donne nella Resistenza è anzitutto necessario ricordare chi, tra loro, ha anticipato i tempi, lottando negli anni bui del fascismo, molto prima del luglio 1943. Su 891 donne deferite al tribunale speciale in quasi 17 anni di attività, 487 (il 54,5 per cento) subirono la repressione dal 1940 al 1943. Questo dato si può leggere come un innalzamento della soglia di attenzione da parte del regime fascista negli anni della guerra nei confronti dell’atteggiamento delle donne nella società, così come potrebbe essere letto quale espressione di una maggiore «estroversione» della dimensione pubblica, di una maggiore apertura delle donne stesse oppure quale combinato disposto delle due cose.
Il dato certo, però, che emerge dall’analisi storica, è lo speciale rapporto che intercorre tra le donne e la guerra. Il fascismo puntava sulla cooperazione femminile per la tenuta del fronte interno e la guerra totale e prolungata obbligava ad una diversa posizione delle donne sul piano della famiglia e della società; erano chiamate, contemporaneamente, a ricoprire un più marcato ruolo tradizionale, ma anche a subentrare nelle attività produttive riservate solitamente agli uomini, che erano al fronte. L’impiego delle donne nella produzione industriale e agricola non risale, certo, solo al 1940, ma già da allora le donne rappresentavano il 30 per cento della manodopera complessiva, rispetto al 25 per cento del 1936 (era già in corso la guerra in Africa) mentre, al termine della guerra erano oltre 7 milioni: 3,5 milioni nell’industria, 2 milioni nell’ agricoltura e 1,5 nel terziario; cioè del 30 per cento di tutta la popolazione attiva.
Il ruolo della donna passava dunque da quello di mero sostegno psicologico agli uomini al fronte, dall’attività di cura per i vecchi e i figli a casa, a una nuova funzione che comprendeva, sì, quelle precedenti, ma che passava al sostegno anche materiale dell’intera famiglia, spesso con un’assunzione totale di responsabilità.
I venti mesi che vanno dal settembre 1943 all’aprile 1945 hanno rappresentato uno spartiacque per la vita del nostro Paese e per la formazione delle coscienze di tante persone, donne e uomini: è da qui che nascono impellenti la voglia e la necessità, di ricordare quanto hanno fatto tante donne per la libertà di tutti noi poiché senza le donne la Liberazione non sarebbe stata possibile e, comunque, non avrebbe avuto quella portata di cambiamento così radicale nella storia del nostro Paese.
Nella guerra di Liberazione, a differenza delle altre guerre, non siamo in presenza solo di un protagonismo maschile: ci sono gli uomini che combattono e poi, quasi di contorno oppure sullo sfondo, ci sono tutti gli altri. Al contrario, è la Resistenza a indicare le specificità e in particolare quella femminile, che emerge con potenza nell’emergenza bellica.
Le grandi masse di donne che entrano a contatto con il lavoro in così grande quantità conoscono una forma nuova di lotta e di protesta, lo sciopero e anche la rappresentanza, forme di protesta che dalle fabbriche e dagli impianti industriali si espandono nei quartieri delle città, e non solo di quelle del «triangolo industriale». Si usano linguaggi nuovi, perché è necessario ribellarsi a chi vuole metterle a tacere come ha fatto il fascismo per venti anni e dunque aderire a uno sciopero rappresenta una presa di coscienza e di responsabilità, vuol dire, per le donne italiane, «essere nel mondo» e chiedere la pace, vuol dire partecipare e incoraggiare anche gli altri lavoratori alla lotta per i propri diritti. Siamo di fronte a una scuola di vita «rapida» che trasforma il modo di essere e di ragionare e che crea nuove coscienze. Le donne sono protagoniste e consapevoli: in queste circostanze sono loro che permettono il trasporto di materiali di propaganda creando quella prima rete di trasporti, rifugi e depositi che saranno punti importanti della rete cospirativa.
Dai primi atti delle donne dall’8 settembre 1943 emerge il loro nuovo modo di essere: salvano i soldati dai primi rastrellamenti e le contadine in particolare danno loro gli abiti borghesi per andare a casa o rifugiarsi sui monti. Sono molte le donne che aiutano ad occultare le armi abbandonate dall’esercito che si sfalda, perché sarebbero state la base di armamento dei primi nuclei partigiani sia in montagna che in città. La partecipazione delle rappresentanti dei gruppi di difesa della donna (GDD) nei comitati di liberazione nazionale (CLN) non è il successo di un’isolata rivendicazione, ma il risultato di un’azione politica precisa, tesa a superare lo schema partitico dei CLN e a collegare direttamente il movimento di massa alla sua espressione politica più alta, oggi diremmo alla società civile.
Le donne attive rappresentano la possibilità di un’organizzazione clandestina sindacale più estesa, ramificata in un numero maggiore di aziende, nonché il coinvolgimento di nuove categorie, così come il ruolo delle donne nella Resistenza fa sì che lo stesso partito illegale si faccia partito di massa, che la rete della stampa clandestina sia più capillare, e che la stessa organizzazione delle brigate partigiane si perfezioni. Accade dunque che, mano a mano che ogni problema della vita democratica si pone in modo più largo e concreto e si sviluppano gli aspetti organizzati della lotta armata e della vita civile, la presenza femminile diventi sempre più evidente e significativa.
La realtà dei fatti ci dice che le donne sono pari agli uomini nella lotta e nel sacrificio che affrontano con grande fermezza, e molte volte, oltre alla tortura e alla violenza che tutti i partigiani provano sulla loro carne, subiscono oltraggi ben più gravi, proprio perché donne.
Il contributo femminile alla lotta di Liberazione è importante non solo numericamente, ma per le conseguenze, culturali e sociali prima e politiche poi, che ebbe.
Le donne irrompono sulla scena e scelgono da che parte stare, divenendo soggetti attivi dei cambiamenti storici. Votano per la prima volta alle elezioni politiche del 2 giugno 1946 per eleggere l’Assemblea costituente e scegliere con un referendum se l’Italia deve rimanere una monarchia o divenire una repubblica.
L’esperienza della Resistenza sarà dunque determinante per le donne italiane che, dal 1945, promuoveranno instancabilmente il loro coinvolgimento attivo nella vita politica del Paese per conquistare diritti legali, economici e politici. Il contributo alla Resistenza da parte delle donne, soprattutto nel nord Italia, è stato diffuso e sostanziale, anche se il ruolo che tuttavia ha impegnato maggiormente le donne, e il più ricordato dalla storiografia, è quello della staffetta.
Il compito della staffetta era quello di mettere in collegamento le formazioni partigiane fra loro e con il centro direttivo. Durante l’occupazione nazista il controllo del territorio è stretto e le donne, per le mansioni solitamente affidate loro a livello sociale-familiare, possono spostarsi più liberamente, sia a piedi che in bicicletta, senza destare sospetti, portando ordini, volantini, armi e viveri, venendo spesso perquisite ai posti di blocco e viaggiando di notte per essere a casa e al lavoro in tempo, tenendo sovente all’oscuro i familiari, che nulla sanno dell’impegno delle loro figlie, mogli e sorelle.
Quello delle staffette non è un ruolo residuale, chi lo svolge sperimenta una condizione di solitudine: al buio, al freddo, sotto le intemperie, camminando per chilometri e chilometri nelle strade e nei sentieri dei boschi. Non è una mansione che si può compiere inconsapevolmente.
Il continuo rischio di essere intercettate dal nemico e di conseguenza arrestate, violentate e torturate, rende queste donne innanzitutto forti interiormente, pienamente coscienti del ruolo che stanno svolgendo. Va rimarcata, per molte, proprio l’attività compiuta in solitudine, silenziosa al punto che parecchie donne nel dopoguerra nemmeno ritirano il diploma di partigiane: inizialmente la loro è una Resistenza taciuta.
Il ruolo delle donne nel movimento di Resistenza è stato rilevante, anche se a lungo misconosciuto. Le cifre ufficiali registrano 35.000 partigiane, oltre 1.000 sono quelle cadute in combattimento e più di 2.000 quelle fucilate e impiccate.
Sono dati eloquenti che contribuiscono a connotare la natura del movimento di Resistenza, ma dentro questi numeri sono ancora più importanti le scelte di vita che hanno spinto queste donne a prendere parte attiva al conflitto. La partecipazione femminile alla Resistenza è stata favorita dalla dissoluzione dell’esercito italiano l’8 settembre 1943 e dal fronte totale che attraversa quasi tutta la penisola. L’occupazione nazista e il controllo del territorio attuato dalle forze fasciste creano, come nel resto d’Europa, uno scenario bellico dove non si individuano più una prima linea e una retrovia, ma dove ogni luogo può diventare improvvisamente «centrale», così anche tutte le abitazioni private, spesso violate dagli occupanti. Partecipare alla Resistenza porta le donne a varcare quei ruoli assegnati che le confinavano in casa e in posizioni subalterne («Mi sentivo libera di rendermi libera» racconta una protagonista).
È l’emergenza che sovverte gli equilibri di genere. Si comincia sostituendo gli uomini nelle fabbriche, come già era successo nella Prima guerra mondiale, e si arriva alla scelta di entrare o di collaborare con le formazioni partigiane accettando di mettere a rischio la propria vita.
Siamo di fronte a uno strappo con la tradizione. L’impegno attivo delle donne si accompagna alla definizione di una nuova prospettiva personale che guarda oltre la propria famiglia e i propri affetti. I ruoli di moglie, madre, casalinga, giovane figlia (tante sono le giovanissime anche sotto i vent’anni) finiscono inesorabilmente in secondo piano.
Davanti a tutto c’è il movimento di Resistenza che è sentito come uno strumento di riscatto personale oltre che politico e sociale.
Dentro queste scelte forti, le donne inquadrate all’interno delle formazioni partigiane si scontrano, sia durante sia dopo il conflitto, con il costume bigotto di chi le giudica di facili costumi perché passano le notti con gli uomini. In realtà, su questo punto, la disciplina partigiana è rigida e proibisce, innanzitutto per motivi di sicurezza, relazioni sentimentali tra maschi e femmine. Sono anche gli atti di disobbedienza nei confronti degli occupanti a fornire uno spessore a quella che è stata definita la Resistenza civile.
È per tutto questo e per molto altro che riteniamo necessario, oltre che storicamente e socialmente doveroso, ricordare il fondamentale ruolo delle donne nella Resistenza e nel percorso fino alla Liberazione con l’istituzione della Giornata in memoria delle donne nella Resistenza.
PROPOSTA DI LEGGE
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delle proprie disponibilità di bilancio, promuovono convegni, incontri e dibattiti sulle donne nella Resistenza, favorendo e patrocinando la realizzazione di studi sul tema.