lunedì 4 Maggio 2015

Revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari


PROPOSTA DI LEGGE

d’iniziativa dei deputati

BRUNO BOSSIO, VERINI, LEVA, SCHIRÒ, LOCATELLI, LACQUANITI, SCUVERA, RAMPI, BRUNO, TULLO, MASSA, BARGERO, MAGORNO, MURA, PINNA, SGAMBATO, BAZOLI, IORI, PATRIARCA, PREZIOSI

Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia

Presentata il 4 maggio 2015

 

Onorevoli Colleghi! La presente proposta di legge si basa, per la gran parte, sulla relazione elaborata dall’apposita commissione ministeriale istituita dall’allora Ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri per elaborare «proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio penale» con decreto ministeriale 10 giugno 2013, presieduta dal professor Francesco Palazzo, ordinario di diritto penale all’università degli studi di Firenze, approvata all’unanimità il 4 ottobre 2013 e trasmessa all’ufficio legislativo del Ministero della giustizia il 22 ottobre 2013, tesa alla revisione della preclusione assoluta all’accesso ai benefìci penitenziari da parte dei soggetti autori di reati di cui all’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, per il solo fatto della loro mancata «collaborazione» con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter della medesima legge. In particolare, la presente proposta di legge, con le modifiche apportate, permetterà il superamento del regime costituito dal cosiddetto ergastolo ostativo, figura di creazione dottrinale, e a trasformare l’attuale presunzione di non rieducatività in assenza di collaborazione da assoluta in relativa, riducendo così la pena dell’ergastolo prevista dall’articolo 22 del codice penale, che già di per sé pone seri problemi di costituzionalità sotto due profili: il principio rieducativo e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità entrambi sanciti dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, quest’ultimo ribadito anche dall’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), norma avente rango subcostituzionale per effetto dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, compatibile con gli standard richiesti dalla stessa Convenzione europea. È assolutamente necessario che dopo un lungo periodo di detenzione debbano prevalere le esigenze umanitarie ponendo un limite temporale assoluto alla pena dell’ergastolo che, in caso di reato ostativo ai sensi dell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, la rende ineluttabilmente perpetua. Questo risultato si può raggiungere o abrogando l’articolo 22 del codice penale e sostituendo la pena dell’ergastolo con la pena della cosiddetta reclusione speciale di durata temporale definita oppure con la revisione dell’articolo 4-bis, inserendo un nuovo comma 1-bis, che prevede le ipotesi in cui può venir meno il divieto di accesso al lavoro esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata con riguardo ai detenuti e agli internati per i delitti di cui al comma 1 del citato articolo 4-bis i quali non collaborino con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter della medesima legge.

Con la presente proposta di legge viene, infatti, proposto di aggiungere alle ipotesi contemplate nell’articolo 4-bis quella secondo cui i medesimi benefìci possono essere concessi anche quando risulti che la mancata collaborazione non fa venir meno il sussistere dei requisiti, diversi dalla collaborazione medesima, che di quei benefìci permettono la concessione, ai sensi della legge n. 354 del 1975.

Con ciò rimanendo fermo il presupposto generale per l’applicabilità del nuovo comma 1-bis, costituito dal fatto che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva»: presupposto attraverso il quale resta previsto, con riguardo ai condannati o internati per i delitti di cui al comma 1, un regime più rigoroso, circa la concessione dei benefìci in oggetto, rispetto ai condannati o internati per i delitti di cui al comma 1-ter, il quale richiede, per il medesimo fine, che «non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

La proposta di legge, pertanto, non abroga la disposizione del comma 1 dell’articolo 4-bis, che per certe tipologie di delitto subordina, ordinariamente, l’applicabilità dei benefìci ivi previsti alla collaborazione con la giustizia, bensì intende eliminare l’attuale sussistere di casi in cui tale disposizione risulta insuperabile: ipotesi, quest’ultima, che si configura drammatica nell’eventualità (frequente per i reati di cui al citato comma 1) della condanna all’ergastolo precludendo, di fatto, al non collaborante – senza alcuna considerazione dei motivi o del contesto della mancata collaborazione – qualsiasi prospettiva di affrancamento dalla condizione detentiva o anche di uscita solo temporanea dal carcere (a parte il caso eccezionale del permesso di necessità di cui all’articolo 30 della legge n. 354 del 1975).

La proposta di legge, piuttosto, trasforma l’attuale previsione della mancata collaborazione come presunzione ordinariamente assoluta di insussistenza dei requisiti che consentono, di regola, l’accesso del detenuto o dell’internato ai benefìci previsti dalla legge n. 354 del 1975 in una presunzione relativa e in quanto tale superabile, con adeguata motivazione, da parte del giudice: fermo restando sempre, come detto, che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

La giurisprudenza costituzionale ha, del resto, da tempo ammonito che, nella materia dei benefìci penitenziari, è criterio «costituzionalmente vincolante» quello che esclude «rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata caso per caso» (Corte costituzionale, sentenze n. 436 del 1999, n. 257 del 2006 e n. 79 del 2007), evitando un automatismo «sicuramente in contrasto con i princìpi di proporzionalità ed individualizzazione della pena» (Corte costituzionale, sentenza n. 255 del 2006).

All’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 si propone di aggiungere un nuovo comma 3-ter sancendo che le informazioni richieste dall’autorità giudiziaria agli organi preposti per l’ammissione dei condannati o degli internati ai benefìci penitenziari non debbano contenere alcun parere sulla concessione di tali benefìci ma fornire elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa la permanenza dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Si ritiene opportuno, altresì, stabilire che gli eventuali pareri espressi nelle note informative non possono essere utilizzati nella motivazione della decisione. Infatti, frequentemente, per come riportato dalla giurisprudenza di legittimità, la magistratura di sorveglianza per negare la concessione dei benefìci in questione si limita a trascrivere in modo apodittico, riproducendo il contenuto generico delle informative del comitato provinciale per la sicurezza pubblica o delle Forze di polizia, senza enunciare gli elementi di fatto dai quali ha tratto il proprio convincimento afferente i collegamenti del condannato con la criminalità.

Il comma 2 dell’articolo unico della proposta di legge ha l’effetto di estendere la disposizione del comma 1 dell’articolo 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, che preclude ai condannati e agli internati, in assenza di collaborazione, anche l’accesso alla liberazione condizionale, un istituto che «rappresenta un particolare aspetto della fase esecutiva della pena restrittiva della libertà personale e si inserisce nel fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato. (Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 1974).

L’aggiunta, al secondo periodo del comma 1 dell’articolo 2 del citato decreto-legge n. 152 del 1991, del riferimento nella sua interezza al comma 1-bis dell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, pone rimedio, fra l’altro, all’inconveniente tecnico determinatosi in forza delle modifiche introdotte con il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, attraverso lo scorporo in più commi di quanto in precedenza previsto unitariamente al comma 1 dell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 per cui, non essendo stato richiamato, nel nuovo testo del primo periodo del comma 1 dell’articolo 2 del decreto-legge n. 152 del 1991, anche il suddetto nuovo comma 1-bis dell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975(in quanto norma non indicante elenchi di delitti rilevanti ai fini delle ipotesi di preclusione dell’accesso alla liberazione condizionale), tale comma 1-bis non risulta più ripreso, ora, con riguardo alla liberazione condizionale (pure per la parte che non costituisce contenuto della presente proposta di legge).

La proposta sopra formulata trova la sua motivazione principale nell’insostenibilità della presunzione assoluta del mancato realizzarsi del fine rieducativo della pena, o dei progressi nella rieducazione ritenuti rilevanti dalla legge ai fini dei benefìci penitenziari, per il mero sussistere di una condotta non collaborante ai sensi dell’articolo 58-ter della legge n. 354 del 1975 da parte del detenuto che pure sia stato autore di uno dei reati particolarmente gravi di cui al comma 1 dell’articolo 4-bis della medesima legge n. 354 del 1975.

Una scelta normativa, questa, la quale comporta che l’eventuale acquisizione in concreto della prova, rispetto al detenuto per tali reati, di un effettivo conseguimento delle finalità rieducative assegnate dalla Costituzione alla pena e, in particolare, alla fase della sua esecuzione, resta priva, assente la collaborazione, di qualsiasi effetto giuridico.

In particolare, le preclusioni cui si riferisce la presente proposta di legge assumono per il detenuto non collaborante che, per i citati reati, sia stato condannato all’ergastolo – come già si evidenziava – un effetto ostativo insuperabile della possibilità stessa di addivenire al reinserimento sociale (ma anche un effetto ostativo di ogni variazione del regime sanzionatorio e dello stesso accesso a permessi-premio).

Con l’effetto, fra l’altro, di rendere irrilevante, per il medesimo ergastolano, lo stesso riconoscimento dell’unico fra i benefìci penitenziari – la liberazione anticipata ai sensi dell’articolo 54 della n. 354 del 1975– cui la preclusione non si estende.

Le modifiche normative che si propongono mirano, pertanto, a realizzare un equilibrato superamento della preclusione assoluta di accesso ai benefìci citati che attualmente deriva dall’equiparazione tra collaborazione con la giustizia e avviato, o conseguito, ravvedimento personale.

A tale proposito si deve evidenziare che le motivazioni suscettibili di indurre il detenuto a non compiere una scelta collaborativa possono non coincidere con il desiderio o con la necessità di rimanere legato al gruppo criminale di appartenenza, ma derivare da altre considerazioni. Si pensi alla valutazione del rischio per l’incolumità propria o, soprattutto, dei familiari, al rifiuto morale di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di uno stretto congiunto o di persone legate da vincoli affettivi o di parentela, al ripudio di un concetto utilitaristico di collaborazione che prescinda da un effettivo ravvedimento interiore, al caso in cui la scelta di non collaborare sia riferita a vicende criminose ormai del tutto concluse e sia dovuta al rifiuto di permutare opportunisticamente vantaggi propri con la privazione della libertà di persone non più legate ad attività criminose.

Che d’altra parte la condotta collaborativa non rappresenti necessariamente un indizio di avvenuta rieducazione viene riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 306 del 2003, la quale ammette che simile condotta «ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche». Per cui la medesima condotta non può certamente essere intesa come un elemento indispensabile onde ritenere intrapreso o completato il percorso rieducativo.

L’argomento, dunque, secondo il quale la scelta di collaborare con la giustizia è l’unica condotta valutabile per accertare la rottura dei legami del condannato con la criminalità organizzata non può essere convincente.

Una conclusione, questa, che vale a maggior ragione in tutte le ipotesi nelle quali il sodalizio di cui il detenuto faceva parte non esista più ovvero abbia assunto una dimensione organizzativa o territoriale del tutto incompatibile con le precedenti gerarchie (per incorporazione o fusione con altro gruppo criminale o per la totale eliminazione dei vecchi gruppi dirigenti).

Ciò considerato, appare del tutto razionale restituire al tribunale di sorveglianza la possibilità di valutare se esistano elementi specifici che depongano nel senso di un positivo percorso rieducativo del condannato di cui si discute, tale da consentire – con specifica motivazione – l’accesso ai benefìci penitenziari e alla liberazione condizionale nonostante l’assenza di una collaborazione resa ai sensi dell’articolo 58-ter della legge n. 354 del 1975.

Potrebbe a tale fine assumere rilievo, ad esempio, un complesso di comportamenti, pur non collaborativi, che dimostrino il distacco del condannato medesimo dalle associazioni criminali (dissociazione esplicita, prese di posizione pubbliche, adesione a modelli di legalità, interesse per le vittime dei reati, radicamento del nucleo familiare in diverso contesto territoriale). Ma anche l’impegno profuso per l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato e, quindi, il concreto interesse dimostrato per attività di risarcimento o, più in generale, riparatorie in favore delle vittime del reato. Elemento, quest’ultimo, il quale andrebbe valutato non tanto nella sua dimensione oggettiva di effettiva e completa reintegrazione patrimoniale, quanto piuttosto sotto il profilo soggettivo, da intendere come «concreta manifestazione del sincero proposito di fare tutto il possibile per sanare le conseguenze del delitto» (Cassazione penale, sezione I, 9 maggio 2012, n. 26890).

Sussistono peraltro importanti motivazioni giuridiche ulteriori a sostegno della proposta di legge:

l’inammissibilità del fatto per cui il diritto di non collaborare, rigorosamente garantito in sede processuale come espressione del principio nemo tenetur se detegere (così che la collaborazione rileva esclusivamente come scelta spontanea del soggetto interessato, con effetti premiali), possa trasformarsi nella fase esecutiva in un dovere di collaborare onde poter usufruire dell’ordinario regime di rilevanza della partecipazione al trattamento penitenziario;

l’inammissibilità del fatto per cui, in forza della normativa vigente, una condotta di tipo utilitaristico sia proposta dalla legge, per fini di prevenzione, non già alla scelta dell’autore di reato onde ottenere un vantaggio, bensì come requisito necessario per evitare un danno aggiuntivo (nel nostro caso, la preclusione dell’accesso, ordinariamente possibile, ai benefìci previsti nella fase dell’esecuzione penale): vale a dire in termini di costrizione. Dal che risulta contraddetto il principio per cui la collaborazione può essere incentivata (prospettando un vantaggio), ma non è esigibile (sanzionando il rifiuto con un danno);

il fatto per cui la normativa in esame finisce per far dipendere da un elemento successivo alla sentenza definitiva di condanna l’applicazione di un regime sanzionatorio più gravoso rispetto a quello ordinario di esecuzione della pena inflitta in tale sentenza;

l’irragionevole disarmonia che la normativa in esame delinea rispetto al disposto di cui all’articolo 384, primo comma, del codice penale, il quale, per ragioni di inesigibilità, esclude conseguenze sfavorevoli con riguardo a comportamenti che, addirittura, integrano delitti contro l’amministrazione della giustizia e che potrebbero rappresentare un ostacolo alle attività d’indagine ben più attuale e concreto di quello dipendente dalla non collaborazione dell’ergastolano;

l’incomprensibile disparità di trattamento cui dà luogo la disciplina giuridica in esame con riguardo alle normative che solo pochi anni orsono attribuirono rilievo premiale – senza esigere alcuna collaborazione di giustizia – a condotte di dissociazione da attività criminose (e in particolare dal terrorismo): posto che prese di posizione dissociative credibili potrebbero essere riscontrate anche tra condannati all’ergastolo non collaboranti;

l’irragionevole contraddittorietà della medesima disciplina giuridica rispetto alla scelta con cui furono abrogate le ipotesi di pericolosità presunta, quali previste a suo tempo dall’articolo 204 del codice penale: stante il parallelismo sostanziale che sussiste tra il presumere la non avvenuta rieducazione dell’ergastolano in assenza di contributi collaborativi e il presumere la permanente pericolosità sociale del medesimo;

il disincentivo che finisce per derivare dalla normativa vigente, con effetti controproducenti in termini di prevenzione, rispetto all’impegno del detenuto per fini rieducativi e di affrancamento dalle organizzazioni criminali, nonché per fini di riparazione nei confronti delle vittime.

Per quanto riguarda gli effetti, specifici e particolarmente drammatici, derivanti dall’attuale configurazione del comma 1 dell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, e dell’articolo 2 del decreto-legge n. 152 del 1991, con riguardo ai detenuti condannati alla pena dell’ergastolo, effetti che si sostanziano nella reviviscenza, in mancanza di collaborazione, di una reclusione

a vita senza alcuna speranza del fine pena, né di modificazioni del regime esecutivo, si deve tenere conto, inoltre, della recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, grande chambre, del 9 luglio 2013 (Vinter e altri c. Regno Unito), inerente al contrasto con l’articolo 3 della CEDU («nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti») dell’applicazione della pena dell’ergastolo senza possibilità certa di una revisione che sia specificamente riferita al processo rieducativo del condannato, dopo un determinato numero di anni.

Secondo le parole della Corte, «l’articolo 3 deve essere interpretato come richiedente la «riducibilità» della sentenza» (reducibility of the sentence), «nel senso di una revisione che permetta alle autorità nazionali di considerare se dei cambiamenti nella vita del condannato siano così significativi e se tale progresso verso la rieducazione (rehabilitation) sia stato realizzato nel corso dell’esecuzione penale in modo tale da considerare la detenzione come non più giustificata in rapporto ai fini della pena» (Vinter, cit., § 119).

Ne risulta affermato il «principio per cui a tutti i detenuti, compresi gli ergastolani, [dev’essere] offerta la possibilità di rehabilitation e la prospettiva di un release, nel caso in cui un percorso rieducativo si venga a realizzare» (Vinter, cit., § 114 ss., anche in riferimento alle Rules 6 e 103 delle European Prison Rules).

In particolare, la Corte europea dei diritti umani non ha ritenuto sufficiente, circa la compatibilità della condanna all’ergastolo con l’articolo 3 della CEDU, il fatto che possa darsi, nel futuro, una revisione del carattere perpetuo di tale condanna, esigendo piuttosto che il riesame giudiziario a ciò finalizzato sia certo e temporalmente prevedibile, nonché specificamente riferito ai progressi nella rieducazione e alla giustificabilità rispetto ad essi del proseguimento dell’esecuzione.

Per cui appare evidente che una disciplina come quella italiana sin qui presa in esame la quale impedisce al tribunale di sorveglianza una valutazione in concreto dei suddetti fattori, in quanto preclusa da una presunzione assoluta di non rieducazione dell’ergastolano dipendente dalla mera indisponibilità alla collaborazione di giustizia (che di certo non può essere considerata indizio sicuro di mancata rieducazione), si pone in contrasto con la CEDU, secondo l’interpretazione che ne ha dato recentemente la Corte di Strasburgo nella sua espressione più autorevole, con tutte le conseguenze che ne possono derivare, in termini di responsabilità e obblighi di risarcimento, per il nostro Paese.

In conclusione, si evidenzia, che il 23 dicembre 2014, il Governo ha presentato al Parlamento un disegno di legge (atto Camera n. 2798) che all’articolo 24 prevede una delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario da adottare entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge secondo i criteri indicati dall’articolo 26.

Tale articolo, al comma 1 lettera c), prevede testualmente «l’eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo»

La lettera in esame sembrerebbe far riferimento all’ergastolo ostativo. Dunque il maggior indiziato per una probabile futura riforma rimane l’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 e di riflesso l’articolo 58-ter della stessa legge, uniche norme che hanno una funzione significativa in merito alla preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati all’ergastolo.

Pertanto, è ragionevole ritenere che anche il Governo voglia procedere alla modifica dell’articolo 4-bis nella direzione indicata dalla Commissione Palazzo ed espressamente contenuta nella presente proposta di legge.

 

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

  1. All’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. a) al comma 1-bis sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e altresì nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefìci citati»;
  3. b) dopo il comma 3-bis è aggiunto il seguente:

«3-ter. Le informazioni previste dal presente articolo non devono contenere pareri sulla concessione dei benefìci, bensì fornire elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti dei condannati o internati con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Gli eventuali pareri espressi dagli organi preposti non possono essere utilizzati nella motivazione della decisione».

  1. Al comma 1 dell’articolo 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, le parole: «commi 2 e 3» sono sostituite dalle seguenti: «commi 1-bis, 2 e 3».