Onorevoli Colleghi! — Le parole, come giuristi e linguisti concordano, formano identità individuali e collettive; affermano o, per converso, negano diritti: «ciò che non è rappresentato verbis non esiste».
Studiose in materia confermano, infatti, che «La discriminazione, nelle sue diverse forme, è presente non solo in angoli reclusi e occultati, ma anche nei luoghi di lavoro, negli stadi, nelle procedure amministrative, nelle leggi».
Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione a evitare il maschile «inclusivo», cosicché l’espressione «i diritti dell’uomo» viene riformulata in «i diritti della persona», e molti sono gli interventi «antidiscriminatori» sul linguaggio amministrativo (vedi le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del comune di Firenze e dell’Accademia della crusca).
Con la presente proposta di legge si intende contribuire ad attuare – nel quadro più generale del sistema della parità e delle pari opportunità tra uomini e donne, così come delineato dalla normativa di riferimento – il pari trattamento nell’uso del linguaggio nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi, nonché nell’attribuzione dei titoli funzionali, siano essi accademici, professionali, istituzionali od onorifici, concorrendo a tale fine alla rimozione dei pregiudizi e degli stereotipi di genere.
Con «l’obbligo della concordanza di genere quando un titolo funzionale è assegnato a una donna» s’intende, anche attraverso l’uso appropriato della lingua, favorire in maniera decisiva il pari trattamento e la valorizzazione di genere, nonché una cultura che prenda atto e valorizzi il nuovo ruolo sociale delle donne, dando loro pari dignità e visibilità degli uomini in ogni ambito della vita pubblica e privata.
La riflessione su genere e pari opportunità dagli anni 70 ad oggi ha prodotto, nelle normative internazionali, europee e nazionali, direttive, linee guida e vademecum sull’uso del linguaggio di genere nella comunicazione pubblica e privata.
In Italia il primo studio organico sul sessismo linguistico si deve ad Alma Sabatini (1922-1988), militante radicale e attivista femminista che curò delle linee guida, rivolte alle scuole e all’editoria scolastica, contenute nelle «Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana» seguito da «Il sessismo nella lingua italiana» del 1987, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri – Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, che ancora oggi costituiscono un ottimo strumento di riflessione sulla lingua italiana e sulle sue potenzialità per far emergere i ruoli che le donne hanno ed hanno avuto nella società, nella storia e nella cultura italiane, nonché rappresentano il punto di partenza per una riflessione partecipata sugli usi linguistici per la costruzione di una cultura di genere condivisa.
Nelle Raccomandazioni si evidenzia, in particolare, la prevalenza del genere maschile usato in italiano anche con doppia valenza per indicare il femminile (il cosiddetto maschile neutro) e si sottolinea il mancato uso di termini istituzionali declinati al femminile.
Non sono mancate iniziative da parte degli ordini professionali, in particolare dell’Ordine dei giornalisti. Già il 13 gennaio 1991 fu siglato il Patto per un linguaggio non sessista tra il Coordinamento giornaliste del Veneto «Claudia Basso» e il Centro donna del comune di Venezia. «Il Patto rispecchia la volontà di usare anche nell’informazione un linguaggio che non discrimini la donna e che la renda visibile».
Un’altra importante iniziativa è stato il seminario «La lingua che non c’è» nel 2011 a Venezia, in occasione del ventennale del Patto, promosso a livello nazionale dall’associazione Giulia, a cui hanno partecipato le giornaliste veneziane e venete che hanno aderito e contribuito al Patto fin dall’inizio, poetesse e scrittrici, in contatto con il progetto «Genere, lingua e politiche linguistiche», gruppo nato per iniziativa di Giuliana Giusti, professoressa associata al Dipartimento di studi linguistici e culturali comparati dell’università di Ca’ Foscari; la stessa, promotrice anche dei seminari su «Lingua e identità di genere» del Comitato per le pari opportunità – programmazione 2011 – della citata università di Ca’ Foscari, ha elaborato e inviato al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca un Documento conclusivo sottoscritto anche da associazioni operanti nel settore.
Ulteriori iniziative rilevanti sono state le seguenti: il progetto «Genere e linguaggio», promosso nel 2012 dal Comitato pari opportunità del comune di Firenze in collaborazione con l’Accademia della crusca, che ha dato vita alle Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, a cura della linguista Cecilia Robustelli; la campagna torinese «Donne con la A» promossa nel 2014 dal comitato SeNonOraQuando; le Linee guida proposte nel 2015 dal Comitato unico di garanzia e dalla consigliera di fiducia dell’università degli studi di Torino nell’ambito del progetto «Un approccio di genere al linguaggio amministrativo»; l’attuale «Rivoluzione rosa parte dal linguaggio» dell’università di Bologna che prevede in tutti i documenti i nomi di ruoli e cariche al femminile perché, come ormai viene sempre più confermato, «non solo politicamente, ma anche grammaticalmente corretto».
Indubbiamente il cammino intrapreso ha fatto leva sulle disposizioni normative emanate dal Parlamento e dalla Commissione europea, a partire dalla fondamentale Carta europea per l’uguaglianza e la parità delle donne e degli uomini nella vita locale, elaborata dal Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa.
A livello normativo in Italia si segnalano alcune disposizioni finalizzate a favorire la parità e le pari opportunità tra i sessi.
La legge 10 aprile 1991, n. 125, recante «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro», all’articolo 4, comma 3, prevede che nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta dev’essere accompagnata dalle parole «dell’uno o dell’altro sesso», fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione.
Il codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, prevede, all’articolo 1, che «1. Le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo. 2. La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione. 3. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato. 4. L’obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività».
Nel 2007, anno europeo delle pari opportunità, grazie alle sollecitazioni dell’Unione europea, la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica e Dipartimento per le pari opportunità, con la direttiva «Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche» ha richiamato le pubbliche amministrazioni ad utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti eccetera) un linguaggio non discriminatorio e a curare, in tal senso, la formazione e l’aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifica dirigenziale. I Dipartimenti della funzione pubblica e per le pari opportunità, congiuntamente, ne hanno monitorato l’applicazione fino al 2012. Attualmente, il format a cui devono rispondere le amministrazioni è in attesa di revisione.
Nel contesto della normativa di parità e di pari opportunità nel lavoro pubblico si inserisce, con il decreto legislativo n. 165 del 2001, l’accento sulla divulgazione della cultura di genere.
La mozione n. 1-00107 del 31 maggio 2007, presentata nella XV legislatura dal senatore Alfonsi e altri, impegnava il Governo: «(…) a introdurre negli atti e nei protocolli adottati dalle pubbliche amministrazioni una modificazione degli usi linguistici tale da rendere visibile la presenza di donne nelle istituzioni, riconoscendone la piena dignità di status ed evitando che il loro ruolo venga oscurato da un uso non consapevole della lingua».
Per quanto riguarda gli esempi negli altri Paesi europei si ricordano i seguenti: in Francia la circolare del Primo ministro dell’8 marzo 1998 ha richiamato i Ministri a «ricorrere ad appellativi femminili per i nomi di mestiere, di funzione, di grado e di titolo»; nel 1993 il Governo svizzero ha deciso che l’amministrazione deve utilizzare una lingua «non sessista»; in Austria un accordo del 2001 ha impegnato i Ministri a un impiego della lingua sensibile ai generi; in Germania, conformemente alla legge federale sull’uguaglianza fra le donne e gli uomini (5 dicembre 2001), esiste l’obbligo di attenzione a un linguaggio sensibile ai generi nella legislazione e nella corrispondenza ufficiale; in Spagna la legge costituzionale 3/2007 per la parità effettiva tra gli uomini e le donne prevede, al titolo II sulle politiche pubbliche per la parità, tra i criteri generali di attuazione dei poteri pubblici, «l’adozione di un linguaggio non sessista nell’ambito amministrativo e la promozione dello stesso nella totalità dei rapporti sociali, culturali ed artistici»; relativamente alla società dell’informazione «nei progetti riguardanti la tecnologia dell’informazione e la comunicazione finanziati (…) con denaro pubblico verrà garantito l’uso di un linguaggio e di contenuti non sessisti; e poi per parità e mezzi di comunicazione, gli articoli 37 sul sistema radiotelevisivo pubblico, e 38, relativo all’agenzia giornalistica pubblica, si dice per entrambi che perseguiranno tra gli obiettivi anche quello di fare un uso non sessista del linguaggio».
Sul piano internazionale, a livello istituzionale si segnalano alcuni interventi. In primo luogo, quello del Consiglio d’Europa, il cui Comitato dei Ministri ha adottato, il 21 febbraio 1990, la raccomandazione R(90)4 sull’eliminazione del sessismo nel linguaggio, con cui raccomanda agli Stati membri, tra l’altro, di «promuovere l’uso di un linguaggio che rispecchi il principio della parità tra l’uomo e la donna e di prendere tutte le misure che ritengano opportune al fine di (…) far sì che la terminologia usata nei testi giuridici, nella pubblica amministrazione e nell’istruzione sia in armonia con il principio della parità tra i sessi». In secondo luogo, quello dell’UNESCO, che nel 1999 ha emanato le proprie Linee guida per un linguaggio neutro dal punto di vista del genere, nelle quali si invita a evitare l’utilizzo di termini «che possono dare l’impressione che le donne non siano prese (sufficientemente) in considerazione (ad esempio “il candidato”), le parole che escludono le donne (ad esempio “i politici”), i termini che escludono gli uomini (ad esempio “le infermiere”), le formule che riflettono una visione stereotipata dei ruoli di genere (ad esempio “i delegati e le loro mogli”)».
La raccomandazione Rec(2003)3 sulla partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini ai processi decisionali politici e pubblici invita gli Stati membri a «adottare misure amministrative affinché il linguaggio ufficiale sia il riflesso d’una ripartizione equilibrata del potere tra le donne e gli uomini»; in essa si legge: «Il linguaggio, i cui simboli sono importanti, non deve sancire l’egemonia del modello maschile. La lingua deve essere neutra dal punto di vista dei generi (ad esempio “persona”) oppure riferirsi ai due generi (“cittadini” e “cittadine”)».
Nella prefazione alle Linee guida del Parlamento Europeo per un linguaggio neutro dal punto di vista del genere, accolte dall’Ufficio di presidenza del 19 maggio 2008 e specifiche per ogni lingua, il Segretario generale Harald Romer scriveva che: «Il Parlamento europeo si impegna a utilizzare un linguaggio neutro dal punto di vista del genere nelle sue pubblicazioni e comunicazioni, ed è la prima istituzione a fornire linee guida specifiche sul linguaggio neutro dal punto di vista del genere in tutte le lingue di lavoro comunitarie».
Tuttavia, nonostante le norme, le raccomandazioni europee e nazionali, i contributi di singole studiose e l’impegno delle istituzioni locali, la partita dei diritti e della lotta alle discriminazioni di genere nel linguaggio amministrativo e nella comunicazione istituzionale richiede ulteriore attenzione e sforzi orientati a intrecciare, nel contesto dei mutamenti socio-culturali, la dimensione dell’etica e della democrazia paritaria a tutti i livelli di governo e nei processi in atto, superando «pregiudizi» e reali difficoltà «tecniche» e favorendo sempre più una comunicazione trasparente e rappresentativa.
A tale fine, con la presente proposta di legge si dispone che le pubbliche amministrazioni di cui al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, «in ogni disposizione normativa, vigente o in corso di adozione, sono tenute a concordare il titolo funzionale, accademico, professionale, istituzionale od onorifico, con il sesso della persona alla quale lo stesso è attribuito».
Questa necessità – si ribadisce – trae origine dalla convinzione che «Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile, né tanto meno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi» (http://www.treccani.it/lingua_italiana/speciali/femminile/Robustelli.html).
PROPOSTA DI LEGGE
sentita la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità, riferisce sullo stato di attuazione delle disposizioni della presente legge.
2. L’Organismo indipendente di valutazione delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1 della presente legge, istituito ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, provvede alla valutazione dell’attuazione delle disposizioni della presente legge e, in caso di inottemperanza, pronuncia un giudizio negativo.