L’intervento di Pia Locatelli
Costa caro il silenzio sulle violazioni dei diritti umani
Innanzitutto voglio ringraziare la LIDU per il grande onore che mi ha concesso con l’assegnazione di questo premio.
La difesa dei diritti umani (mi piace di più del termine “diritti dell’uomo”) è sempre stato un tema a cui mi sono appassionata e dedicata con impegno, ma che – confesso – è stato anche fonte di frustrazione. Mi accade di avere la sensazione di mulinare nel vuoto, di fare la fine di Don Chisciotte o, nella migliore delle ipotesi, di svuotare il mare con un cucchiaino ma immagino che anche tanti di voi siano passati, passino attraverso frustrazioni continue, che però non fermano chi dell’impegno per i diritti umani ha fatto una ragione di vita.
I difensori e le difensore dei diritti umani sono persone, gruppi, organizzazioni che promuovono e proteggono i diritti umani attraverso mezzi pacifici e non violenti; soprattutto siamo resistenti, non ci fermiamo, nonostante le frustrazioni. Continuiamo imperterriti. Sappiamo infatti che ottenere dei risultati concreti è quasi sempre operazione lunga, complessa e non sempre dagli esiti soddisfacenti; così come sappiamo che anche la sola denuncia delle violazioni è parte sostanziale, fondamentale del nostro impegno.
La questione della difesa dei diritti umani è anche, forse innanzitutto, una questione di comunicazione. Far sapere al mondo cosa avviene non serve soltanto a difendere le vittime, ma anche a risvegliare quella solidarietà e quell’impegno personale che soli possono davvero fare la differenza per modificare situazioni che coinvolgono responsabilità personale e collettive, istituzionali, di Governi e tra gli Stati.
Purtroppo oggi come ieri non manca una ampia, agghiacciante casistica di esempi da citare e se porto alla vostra attenzione alcuni di questi casi, non è certo perché sono i soli, o i più emblematici.
E’ difficile fare la graduatorie e mi è già capitato di essere criticata per non aver indicato qualcuno, che ha ritenuto di essere stato immeritatamente escluso dalla citazione, non trattato con il …dovuto rispetto.
Comunque, ci sono delle situazioni che richiamano con forza la nostra attenzione, che possono aiutarci a meglio comprendere quanto accade e forse affinare le nostre risposte.
Turchia. La repressione scattata all’indomani del tentato golpe ha portato ad arresti e carcerazioni indiscriminati e a persecuzioni diffuse nei confronti di decine di migliaia di cittadini, alla proclamazione dello stato di emergenza che significa che il Governo turco adesso avrà ancor più potere, oserei dire potere totale, nei confronti di ogni persona sfiorata dal sospetto di aver preso parte al tentativo di rovesciare il governo.
Non più tardi di ieri pomeriggio ho incontrato un parlamentare dell’HDP che tornerà nel suo Paese dopodomani: sa già che lo aspettano all’aeroporto per portarlo direttamente in carcere. Si aggiunge ad altri deputati già in carcere che abbiamo tentato di visitare ad Edirne. Permesso ovviamente negato. Gli arresti sono il risultato della eliminazione dell’immunità parlamentare in quel Paese.
La repressione sembra si accanisce su giornalisti, insegnanti, intellettuali e non risparmia nessuno, tantomeno le donne.
Una settimana fa, il Corriere della Sera, ha pubblicato un bella intervista alla scrittrice turca Asli Erdogan, in carcere dal 16 agosto scorso. La colpa di Asli è quella di aver offerto assieme ad altri intellettuali la sua opera di consulente editoriale per il quotidiano Özgür Gündem, considerato dal governo organo del Pkk, il Partito comunista curdo, dichiarato illegale. Asli è nel carcere di Bakirkoy di Istanbul, un carcere che conosco per avere tempo fa fatto visita a Busra Ersanli, una accademica, una cara amica, accusata di essere collegata ai terroristi. Accusa ridicola per chi conosce Busra, ma la legge sul terrorismo che vige in Turchia consente una libertà di azione davvero incredibile. La sola partecipazione al funerale di una persona ritenuta essere stata collegata al PKK può avere conseguenze serie.
Anche in Egitto succedono fatti altrettanto gravi. La polizia egiziana ha arrestato qualche giorno fa Azza Soliman, un’ avvocata, un’attivista dei diritti umani, con l’accusa di aver avuto finanziamenti dall’estero per la sua Ong, il Centro per l’Aiuto Legale alle Donne Egiziane (CEWLA), di cui è fondatrice e animatrice. Alcuni giorni prima avevano congelato il suo conto in banca e quella dell’associazione, prima ancora di aprire un formale procedimento giudiziario. Azza, che è stata rilasciata su cauzione, era già stata oggetto di una persecuzione giudiziaria nel 2015, quando era stata testimone dell’uccisione di un’altra attivista dei diritti umani da parte della polizia, Shaimaa al-Sabbagh nel gennaio 2015. Pochi giorni dopo l’uccisione di Shaimaa, avevamo consegnato all’ambasciatore egiziano a Roma, Amr Helmy, una lettera sottoscritta da quasi 200 colleghi di tutti gli schieramenti per chiedere al presidente Al-Sisi di fare chiarezza sulla morte di Shaimaa al-Sabag.
Ci fu assicurato che “è nell’ interesse dell’Egitto fare piena luce sull’episodio “unanimemente condannato”. E fummo immediatamente informati della condanna a 15 anni del colpevole, non fummo però altrettanto tempestivamente informati quando fu deciso che la condanna era da cancellare e il processo da rifare.
Ma in Egitto l’attivismo della società civile non è gradito: è del mese scorso la legge sulle associazioni civiche, ovviamente redatta senza consultare la società civile indipendente, una legge, ora inviata al Presidente, che viola del tutto il diritto alla libertà di associazione; una legge che, secondo lo Special Rapporteur ONU sui diritti di libertà, pacifica riunione e associazione è “finalizzata a distruggere alle radici le possibilità di impegno civile e pacifico in Egitto” ….. “distruggerà la società civile non solo a breve termine, ma per generazioni”.
Ancora: la scorsa settimana sul quotidiano Libero, è comparsa un’intervista a una fotografa, Sadegh Souri, che ha visitato il carcere di Teheran nel quale sono prigioniere le ragazze minorenni in attesa che la maggiore età apra loro la porta che conduce al patibolo.
Per ….consuetudine -è terribile anche solo pensare alla consuetudine quando si tratta di pena di morte- la pena di morte può essere comminata anche a minorenni, ma non può essere applicata prima che questi/e abbiano raggiunto la maggiore età.
Nel caso di queste ragazze, siamo di fronte spesso a vicende che hanno a che fare con storie di estrema povertà, di stupri, di spose-bambine acquistate da uomini anziani, che si concludono con atti di violenza gravissimi, fino all’omicidio, ma in cui la prima vittima è spesso la stessa imputata, quella che è in attesa di applicazione della condanna, travolta da consuetudini religiose, violenze familiari, maschilismo, estrema povertà. A queste prigioniere bambine non resta che sperare in una commutazione della pena capitale in ergastolo, ma gli unici a poterlo fare sono i parenti di chi ha subìto il delitto.
Ho citato brevemente questi casi, senza naturalmente ignorare o sottovalutare quanto sta avvenendo in altre parti del mondo, dal Pakistan alla Cina, dalla Siria all’America Latina, anche perché hanno un filo che li lega, quello di donne che vengono private della libertà, costrette in carcere dove le aspettano condizioni di vita ancora più dure di quelle già difficili a cui sono abituate.
Altre attiviste hanno rischiato ancor più, hanno perso la vita, come Berta Cáceres, l’eco-attivista assassinata in Honduras per le sue battaglie in difesa dell’ambiente. Abbiamo ascoltato Bertita Caceres, la figlia, in un’audizione nel comitato Diritti Umani della Commissione esteri della Camera. Bertita ci ha raccontato come difendere l’ambiente può diventare un compito terribilmente pericoloso perché spesso le battaglie ambientaliste si scontrano con corposi interessi economici, in un groviglio oscuro che alimenta la violenza per intimidire le popolazioni locali e ridurre al silenzio chi, come Berta, ne difende i diritti.
Diritti di singole persone, diritti di comunità locali, diritti di un popolo. Li abbiamo ben presenti nel nostro lavoro nel Comitato Diritti umani ed è stato a seguito dell’audizione di Nadia Murad che abbiamo proposto e la Camera approvato una mozione per il riconoscimento del genocidio della popolazione yazida. Nadia Murad, una giovane yazida, è una delle poche donne che sono riuscite a fuggire da una condizione di schiavitù sessuale a cui erano state costrette da Daesh, che le aveva trasformate in prede di guerra per i combattenti del Califfato durante la campagna militare in Siria. Oggi Nadia Murad, a cui è stato conferito dal Parlamento europeo il Premio Sacharov, è una testimone delle violazioni dei diritti umani compiuti dal Califfato; la sua infaticabile attività ha portato all’attenzione internazionale le sue atroci sofferenze e quelle della popolazione yazida”.
Non è casuale che abbia parlato di donne “protagoniste” di queste vicende. Certamente la condizione femminile, la promozione delle donne, le pari opportunità, le battaglie contro le discriminazioni sono stati i miei ambiti di attività ma il mio obiettivo qui è di far risaltare una sorta di contraddizione: le donne sotto-rappresentate nella politica, nelle istituzioni, nei luoghi dove si decide sono invece molto presenti quando parliamo di violazioni dei diritti umani, sia come vittime, sia come protagoniste nella loro protezione e promozione. E se iniziano, non si fermano. E’ stato con gioia che ieri, nell’incontro con una delegazione curda, ho incontrato dopo 18 anni, una giovane curda ospite allora di un seminario per celebrare i 50 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Potremmo elencare tanti altri nomi, a partire da Rosa Parks che con il suo rifiuto cambiò la storia dei diritti civili degli Stati Uniti fino Malak al Shehri la ventenne saudita finita in questi giorni in carcere per essersi mostrata non velata in pubblico….
Anche se è passato quasi un quarto di secolo dalla Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna (1993), quando i diritti delle donne sono stati riconosciuti come diritti umani (women’s rights are human rights), la strada da percorrere è ancora lunga. A partire dalla violenza sulle donne.
Nel 1999, con la risoluzione 54/134, l’Assemblea generale dell’Onu ha proclamato il 25 novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricordando il femminicidio di Stato delle sorelle Mirabal. Purtroppo da allora la gravità del fenomeno non è venuta meno, anzi.
I dati ci dicono che gli stupri di guerra, i femminicidi privati e di Stato, la schiavitù sessuale di bambine e ragazze e i matrimoni forzati, le mutilazioni dei genitali femminili sono in molte parti del mondo una normalità terribile, quotidiana, vissuta nel silenzio delle istituzioni, nell’indifferenza del resto del mondo.
“Fenomeni” che in qualche misura stiamo ‘importando’ con la crescita del flussi migratori.
L’Onu ci dice che ogni anno oltre un milione e mezzo di donne, bambine e bambini, sono vittime della tratta per essere avviate alla prostituzione, al lavoro forzato, alla schiavitù.
C’è una linea ideale che unisce il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, al 10 dicembre, Giornata in cui si celebrano i diritti umani.
Possiamo rimanere inerti? Certo che no. Ma come agire?
Le violazioni dei diritti umani di cui abbiamo parlato, ma non solo quelle, avvengono in Paesi con cui l’Italia e l’Unione Europea hanno rapporti politici ed economici intensi e sono, siamo nelle condizioni di esercitare delle pressioni.
I Governi autoritari, i regimi autocratici o teocratici, hanno di recente sperimentato come i movimenti popolari, come sono stati quelli delle cosiddette ‘Primavere arabe’ sono in grado di scuoterli, farli vacillare e anche cadere. Quelli che fino al giorno prima venivano ritenuti regimi inamovibili, sono stati travolti.
Non siamo certo così ingenui da non sapere che quelle piazze spesso non hanno agito da sole e non sono state senza aiuti interessati dall’esterno, ma resta il fatto che hanno dimostrato che decenni di repressione alla fine non hanno spento il desiderio di libertà, ma l’hanno solo compresso fino a renderlo perfino più esplosivo.
Ciò nonostante questi regimi continuano ad esercitare con durezza anche crescente la repressione, a ignorare i più elementari diritti umani, non solo per paura, ma anche perché, escludendo la resa, non hanno altre strade da percorrere soprattutto se noi non glie le diamo.
Ad esempio negli anni ’80, l’amministrazione americana sperimentò col Sudafrica dell’Apartheid il Constructive engagement, ovvero una politica di condanna del segregazionismo che si accompagnava a concessioni e/o ritorsioni per favorire un progressivo abbandono della politica segregazionista del regime di Pretoria. Questa politica di ‘impegno costruttivo’ venne superata dal Congresso che alla fine impose sanzioni economiche, ma comunque portò prima gli Stati Uniti a condannare apertamente e pubblicamente l’apartheid sudafricano contribuendo ad aprire la strada al suo definitivo superamento.
Si trattò di una manifestazione di realismo in un clima in cui vigeva la logica dei blocchi contrapposti, ma che vedeva anche emergere con forza l’esigenza ideale del rispetto dei diritti umani.
Oggi ci troviamo a dover compenetrare esigenze diverse tanto con la Turchia, come con l’Iran, con l’Egitto….
Su un piatto della bilancia il peso della questione dei migranti o dei rapporti economici o del ruolo strategico regionale contro la pressione del fondamentalismo islamico armato; sull’altro il rispetto dei diritti umani, che sono universali.
Il caso iracheno e poi quello libico e quello siriano, indicano chiaramente che a un regime autoritario può far seguito un caos non meno pericoloso anche sul piano del rispetto dei diritti umani piuttosto che il passaggio a un Governo rispettoso della volontà popolare.
Non possiamo chiudere gli occhi davanti a violazioni gravi dei diritti umani, ma neppure pensare di intervenire in situazioni precarie esercitando prioritariamente la forza, quella economica beninteso perché quella delle armi l’Europa non può esercitarla neppure volendolo.
Siamo di fronte ad un dilemma che va affrontato con decisione, ma anche con un’attenta riflessione sulle conseguenze delle nostre azioni.
Come ho già avuto occasione di dire in sede parlamentare, a mio parere la via percorribile è quella di mantenere una relazione forte, una tensione fra etica e realismo; di operare concretamente sulla base dell’etica dei fini e del realismo dei mezzi, tenendo aperti canali di comunicazione anche con quelle parti, quegli attori, quegli Stati che sembrano indifferenti se non addirittura ostili, ai diritti umani.
Per concludere vorrei aggiungere una riflessione, forse un pensiero curioso che mi è venuto in mente ascoltando le più recenti prese di posizione del nuovo presidente statunitense Donald Trump a proposito dei rischi ambientali.
Com’è noto il nuovo presidente considera più o meno un’invenzione il rischio che l’innalzamento continuo delle temperatura dell’atmosfera come conseguenza dell’uso soprattutto dei combustibili fossili porti a gravi danni in tutto il globo. A suo dire saremmo di fronte a un’invenzione dei ‘cinesi per colpire l’economia americana’…
Ecco, a pensarci bene questa sottovalutazione dei danni che si possono arrecare all’ambiente e in ultimo a tutto il genere umano, può ricordare l’indifferenza, o peggio il negazionismo, che talvolta circonda la denuncia dei casi di violazione dei diritti umani.
Anche per i diritti umani si tende a dimenticare gli effetti a medio e a lungo termine di violenze e soprusi come fonte di profonde destabilizzazioni che si ripercuotono con estrema violenza anche a grandi, e meno grandi, distanze geografiche dal luogo di origine.
Pensiamo alle migrazioni, alle origini di questi flussi che affondano le radici in gravi squilibri economici e sociali, che determinano violenza, guerre e crisi statuali.
Quanto avviene in Siria oggi, abbiamo le immagini di Aleppo davanti agli occhi, è certamente anche frutto di decenni di dispotismo, di una sistematica violazioni dei diritti umani che oggi siamo chiamati a pagare dovendo far fronte a milioni di disperati in fuga che si ammassano alle frontiere dell’Europa.
Paghiamo così oggi il silenzio di ieri.