13 luglio 2015 Mozione Locatelli, Zampa, Bergamini, Binetti, Galgano, Spadoni, Nicchi, Gebhard ed altri n. 1-00553: Iniziative in ambito internazionale in relazione al fenomeno dei matrimoni precoci e forzati di minori
Discussione generale
Grazie, signora Presidente. È trascorso un anno da quando abbiamo depositato questa mozione e, da allora, nelle sedi internazionali le voci che si sono levate per contrastare questa pratica, tra le più odiose, eppure molto diffusa, hanno trovato ascolto ed accoglienza. La Terza Commissione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, nel settembre 2014, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre dello stesso anno, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite all’inizio di questo mese, proprio l’altra settimana, hanno approvato risoluzioni che impegnano i Paesi sottoscrittori a prevenire ed eliminare la pratica dei matrimoni precoci e forzati, una pratica che viola, abusa e pregiudica i diritti umani di donne e bambine.
Questo consenso internazionale fa ben sperare nell’avvio di iniziative concrete per contrastare, fino ad eliminarla, questa pratica disumana e crudele, i cui dati sorprendono per la dimensione del fenomeno.
L’Unicef parla di decine di milioni di spose bambine e riferisce che nel mondo sono 700 milioni le donne viventi sposate prima dei 18 anni, e i 18 anni vengono indicati come età al di sotto della quale non è accettabile che una ragazza, una bambina si sposi, ma ogni anno i matrimoni al di sotto di quella età sono 15 milioni. Una buona parte coinvolge ragazze giovanissime, spesso bambine, che non hanno compiuto i 15 anni, in alcuni casi nemmeno 12, in altri addirittura 9. È positivo il consenso internazionale espresso attraverso il voto alle risoluzioni, ma secondo il rapporto dello UNFPA del 2013 sullo stato della popolazione del mondo sono ben 140 i Paesi, cioè i tre quarti dei Paesi del mondo dove le ragazze possono sposarsi al di sotto dei 18 anni e in ben 52, più o meno un quarto dei Paesi del mondo, possono farlo anche prima di compiere i 15 anni. Non solo, anche laddove la legge lo impedisce, si verificano casi limite di matrimoni combinati con bambine anche di 8-10 anni.
Alle spose bambine sono tolti tutti i diritti: il diritto all’infanzia, al gioco, alla spensieratezza, all’istruzione, alla possibilità di scegliere, di amare, di decidere della propria vita e del proprio corpo. Schiave di padri prima, di mariti, ma anche di suocere e cognate poi.
I matrimoni precoci e forzati sono una seria minaccia alla salute fisica e psichica di giovani donne e bambine, a partire da quella sessuale e riproduttiva: rischi, per non dire certezze di gravidanze precoci, frequenti e non volute, alti tassi di morbilità e mortalità materna ed infantile, malattie trasmesse sessualmente, compreso l’AIDS, crescente vulnerabilità alle più diverse forme di violenza.
Già alla Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo del 1994, quindi più di vent’anni fa, 179 Governi avevano riconosciuto il legame diretto tra matrimoni precoci, gravidanze in età adolescenziale e alti tassi di mortalità materna. Ma non abbiamo fatto passi avanti.
Al contrario, il rischio di matrimoni precoci e forzati è ulteriormente aumentato in particolare nelle zone di conflitto, come sappiamo sta avvenendo nell’area medio-orientale e in situazioni di crisi umanitarie. Il legame con la povertà è evidentissimo. Il fenomeno è diffuso in molti paesi del mondo, in particolare in Asia meridionale e in Africa sub-sahriana, ma interessa anche il nostro Paese, dove i dati, pochi e non ufficiali, parlano di 2 mila ragazze, anche nate nel nostro Paese, ma costrette a sposarsi spesso ritornando nei Paesi d’origine. Non stiamo quindi parlando di una cosa lontana, ma di fatti che ci riguardano direttamente, di fatti che ci sono vicini, come società civile, politici e come Governo. Per questo motivo l’Intergruppo parlamentare Salute globale e Diritti delle donne ha sollevato l’attenzione sul dramma di queste bambine e di queste ragazze, di queste adolescenti. Abbiamo organizzato un seminario su questo tema al quale hanno partecipato Maura Misiti, ricercatrice del CNR, e l’avvocata Barbara Spinelli che ci hanno confermato che si tratta di un fenomeno sottostimato e in crescita nel nostro Paese anche a causa dell’aumento dei flussi migratori. E quindi la nostra mozione, con la quale impegniamo il Governo a dare attuazione alle due risoluzioni dell’ONU, la prima, quella sui matrimoni, e la seconda per rafforzare gli sforzi per prevenire questi matrimoni. Il secondo impegno è contribuire a dare impulso e a sostenere a livello globale una rinnovata campagna per prevenire ed eliminare questa pratica, e terzo sostenere finanziariamente programmi e progetti di cooperazione internazionale per prevenire ed eliminare i matrimoni di minori, i matrimoni di bambine e matrimoni precoci e forzati.
Dichiarazione di voto
La discussione generale su questa mozione ha illustrato il fenomeno nei suoi aspetti numerici – per quanto si tratti spesso di dati stimati –, nelle sue cause, nelle sue gravi conseguenze.
L’Unicef parla di decine di milioni di spose bambine e riferisce che nel mondo sono 700 milioni le donne viventi sposate prima dei 18 anni. 118 anni vengono indicati come età al di sotto della quale non è «accettabile» che una ragazza, una bambina si sposi, ma ogni anno i matrimoni al di sotto di quell’età sono 15 milioni. Una buona parte coinvolge ragazze giovanissime, spesso bambine che non hanno compiuto 15 anni, in alcuni casi nemmeno 12, in altri addirittura 9.
Questa pratica crudele è diffusa in molti Paesi del mondo, in particolare in Asia meridionale e in Africa sub-sahariana, ma interessa anche la stessa Italia dove i dati, pochi e non ufficiali, parlano di 2 mila ragazze, anche nate nel nostro Paese, ma costrette a sposarsi nei Paesi di origine della famiglia.
È facile immaginare le conseguenze di quella che io chiamo «pedofilia legalizzata»: abbandono scolastico che tarpa ogni prospettiva futura, la possibilità di una vita autonoma e l’indipendenza economica; violenze; stupri; danni irreversibili per la salute; aborti; spesso, troppo spesso, la morte. Anche la prole da gravidanze precoci ne soffre le conseguenze: chi nasce da una madre-bambina o comunque minorenne ha un’alta probabilità di morire in età neonatale e, anche quando sopravvive, corre maggiori rischi di denutrizione e di ritardi cognitivi o fisici.
Questi matrimoni hanno all’origine due cause di fondo: norme sociali che sanciscono numerose forme di disparità che portano le donne di tutte le età, ma in particolare le più giovani, ad essere private dei loro diritti e la povertà che riguarda milioni di persone, soprattutto donne, e milioni di famiglie; norme sociali e povertà che si intrecciano e si alimentano reciprocamente.
Sappiamo che le norme sociali si possono cambiare soprattutto investendo nella scolarizzazione e nell’educazione, ma la pratica dei matrimoni precoci è un ostacolo fortissimo alla scolarizzazione, gli abbandoni scolastici sono la normalità in queste situazioni, creando così un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
La povertà: questi matrimoni sono quasi sempre incoraggiati e promossi dalle famiglie come rimedio alla povertà, come mezzo per «liberarsi» delle figlie, considerate un peso perché «poco produttive», oltre che nella speranza di assicurare loro un futuro migliore, in termini sia finanziari sia sociali. Se non saremo in grado di offrire prospettive di sviluppo che rendano meno difficile rifiutare una dote in cambio di una figlia di pochi anni, non riusciremo ad eliminare questa pratica.
Nell’opinione pubblica internazionale sta crescendo la consapevolezza della barbarie di questa pratica, lo dimostra l’approvazione di risoluzioni da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite pochi mesi fa e del Consiglio Diritti Umani dell’ONU pochi giorni fa, ma sono ancora troppi i Paesi dove le ragazze possono sposarsi al di sotto dei 18 anni e addirittura anche prima di compiere i 15, per non parlare di quelli in cui, nonostante i divieti, si verificano casi limite di matrimoni combinati con bambine anche di 8 o 10 anni.
Troppo spesso si è portati a pensare che queste pratiche riguardino realtà anche geograficamente, oltre che culturalmente, lontane da noi. Non è più così ! Le recenti trasformazioni demografiche indotte dalle migrazioni hanno portato il problema anche a casa nostra, perché le comunità che migrano importano le loro norme sociali, che vengono mantenute, anzi a volte rafforzate come difesa identitaria in un ambiente sociale e culturale a loro totalmente estraneo, in cui spesso si sentono o sono isolati, quando non rifiutati.
Le risoluzioni ONU chiedono un impegno a prevenire ed eliminare la pratica dei matrimoni forzati. Quali gli strumenti e le azioni ?
Possiamo iniziare dalla realtà a noi più vicina, quella del nostro Paese, per conoscerla: anche se in numero ridotto rispetto ad altri Paesi, questo fenomeno c’è anche da noi, benché nessuno o quasi lo sappia. In primis è necessario attuare un’analisi paziente ed accurata dei dati. Non ne abbiamo di certi in quanto non esiste una raccolta di dati specifica sull’argomento ma, come ci ha raccontato Maura Misiti, ricercatrice del CNR, ci sono due indagini «utili» per iniziare a studiare e capire il fenomeno, anche se la validazione dei dati non è ancora stata completata. La prima è la ricerca dell’Istat sulla violenza, che si rivolge alle donne italiane ma che comprende anche un campione di donne immigrate, in cui è stata inserita una domanda sulla libertà di scelta matrimoniale. La seconda è un’indagine dell’Istat compiuta su una popolazione di immigrate dove è presente una domanda sulle modalità di matrimonio. A ciò si può aggiungere l’individuazione dei Paesi di provenienza di migranti in cui la pratica dei matrimoni precoci e forzati è diffusa e valutare la possibile ripetizione della pratica da noi, nella consapevolezza che le percentuali dei Paesi di provenienza non si applicano automaticamente perché i passaggi della migrazione modificano i comportamenti. Da lì si può partire, anche suggerendo che una tale ricerca sia inclusa nel Piano contro la violenza da poco licenziato, che prevede la raccolta di dati. Diamo alla raccolta dati anche questa «specializzazione» ! Il Piano antiviolenza è largamente ispirato dalla Convenzione di Istanbul, che chiede impegno contro questa pratica crudele, in particolare agli articoli 32, sulle conseguenze civili dei matrimoni forzati, 37 sulle misure legislative per combatterli, e 59 sui trasferimenti da un Paese all’altro a causa dei matrimoni forzati.
Un altro strumento può essere un’educazione ai diritti che non coinvolga solo le vittime ma anche le loro comunità di appartenenza, a partire dai padri, dai fratelli, dai ragazzi…. Bisogna ben capire perché un padre, un fratello arrivano a «vendere» una figlia o una sorella, e far loro comprendere che questa pratica è una grave violazione dei diritti umani, una grave violenza su queste bambine, adolescenti, giovani donne. Le scuole, soprattutto quelle a presenza mista per etnie, e le comunità sono aree possibili di intervento educativo. Per insegnare a padri e fratelli che non sono i padroni delle figlie e delle sorelle; per aiutare le madri a difendere le figlie, a non subire od essere «complici» loro stesse di queste atrocità e per educare le ragazze al senso profondo di una vita autodeterminata, alla consapevolezza di sé e dei propri diritti.
Poi una grande campagna internazionale, intensa come quella che il nostro Paese, anche grazie all’impegno di Emma Bonino, e insieme a lei altre ed altri, ha condotto nel mondo contro le mutilazioni dei genitali femminili. Certamente non abbiamo sradicato questa pratica, ma sono sempre più numerosi i Paesi che hanno legiferato perché sia considerata un crimine e sempre più forte è la condanna non solo negli organismi internazionali ma anche nell’opinione pubblica diffusa.
Un primo passo in questa direzione è l’inclusione negli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile post 2015 della prevenzione ed eliminazione dei matrimoni precoci e forzati, insieme a quella delle mutilazioni genitali femminili. È una chiara presa di posizione a favore dello sviluppo sostenibile, di cui queste pratiche costituiscono un forte ostacolo negando a donne di tutte le età, a partire dalle bambine, i diritti umani fondamentali per la piena realizzazione di sé, a favore dell’empowerment attraverso l’educazione e di prospettive di vita futura autonoma ed autodeterminata, oltre che in salute e produttiva. Va in questa direzione l’appello di Berlino che abbiamo approvato nel forum parlamentare del 16 e 17 aprile scorsi, cui hanno partecipato donne di 50 Parlamenti nazionali; per il Parlamento Italiano eravamo presenti la collega Sandra Zampa ed io insieme ad Aidos, ONG in rappresentanza della società civile italiana. Coerentemente chiediamo di sostenere finanziariamente programmi e progetti di cooperazione internazionale per la prevenzione e l’abbandono di questa pratica. Infine chiediamo di dare attuazione alle due risoluzioni delle Nazioni Unite, dell’Assemblea generale del dicembre scorso e del Consiglio dei diritti umani appena approvata a Ginevra, a proposito delle quali vorrei ringraziare il personale della nostra rappresentanza per essere stato capofila di queste iniziative e co-sponsor, insieme alla Sierra Leone, per la seconda risoluzione. Siamo orgogliosi del ruolo attivo dell’Italia su questi temi a difesa dei diritti umani di tutti e di quelli delle donne in particolare. Sono investimenti a lungo termine che rivelano una lungimiranza non sempre capita ed apprezzata, ma solo la lungimiranza può aiutare il mondo a cambiare in meglio.