sabato 13 Gennaio 2018

Con gli occhi di Velia. Da Matteotti ai Rosselli


“Il modo migliore per onorare la memoria di Giacomo Matteotti  è quello di studiarne il pensiero e il ruolo che ebbe nella storia del socialismo italiano e di tutto il Paese e diffonderlo e praticarlo, facendo del riformismo una tematica di cose concrete all’interno di una visione complessiva” . Lo ha detto Pia Locatelli intervenendo a Rovigo al convegno “Con gli occhi di Velia. Da Matteotti ai Rosselli”, organizzato dall’ Associazione culturale Rovigo, dall’Archivio di Stato e dalla Fondazione Anna Kuliscioff.

 

Il testo dell’intervento

Sono contenta che si sia dato questo titolo perché ci dà, mi dà la possibilità di ricordare una figura certamente minore nella storiografia socialista, ma essenziale per capire e apprezzare fino in fondo Giacomo Matteotti.

Voglio partire perciò da una lettera di Giacomo alla moglie Velia del 15 novembre 1921.

“Tutta l’organizzazione – scrive Matteotti riferendosi al Partito socialista – può perire sotto la violenza dei criminali; e nello spirito anche dei più mansueti si fa strada il concetto della necessità di resistere con la forza. I pochi mesi che stanno per venire sono decisivi. Molti ne hanno l’incoscienza”.

Molti, ma non lui che di quella violenza sarà presto vittima.

Le lettere che Giacomo Matteotti scrive alla moglie sono oltre quattrocento, il doppio di quelle che riceve da lei. Sono più lunghe, più complesse, ma si avverte chiaramente quanto Velia rappresenti non solo la ragazza di cui si è innamorato e che ha sposato, la madre dei suoi figli, ma anche un’ ancora a cui a volte scrive raccontando i dubbi, i timori, le complessità della politica e delle tragedie che il Paese sta vivendo, quasi a farne un punto di riferimento per ritrovare un equilibrio e fare chiarezza nei suoi stessi pensieri.

Non dobbiamo dimenticare che soprattutto negli ultimi anni aveva nettissima la percezione dei rischi che correva, per le minacce ricevute, per l’immagine di uno stato liberale che si stava disfacendo per lasciar posto a un autoritarismo violento destinato a sfociare in una dittatura.

I compagni, gli amici, il Paese tutto avvertono immediatamente la dimensione simbolica e politica di quel dramma. Dunque proprio in ragione del suo tragico destino, Matteotti viene consegnato subito alla storia già circondato da un’aureola mitica.

Non è facile parlarne oggi senza ripetere cose già dette molte volte, senza cadere nella retorica.

La retorica è un pericolo sempre incombente anche perché questo nostro Paese è una fabbrica di miti alimentati da una cultura intrisa di perbenismo e dell’ipocrisia di un certo cattolicesimo di maniera.

E la sinistra non fa eccezione.

Anche Matteotti, come altri eroi civili, Garibaldi, Mazzini, i fratelli Rosselli, la stessa Resistenza nel suo insieme, è stato trasformato prima in un mito e poi ridotto a icona mentre il pensiero politico è stato come pastorizzato, reso sterile, inerte. La stessa sorte è toccata a Lina Merlin, divenuta icona della legge sulle case chiuse, che la rese indimenticabile ma che paradossalmente la penalizzò, oscurandone il lungo lavoro. A lei si deve ad esempio la stesura degli articoli 3 e 37 della Costituzione. Il primo stabilisce che “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso”; il secondo prevede che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.

Statue, piazze, strade e ponti, discorsi celebrativi, francobolli, ma di quello che pensavano, delle loro idee, anche rilette criticamente, praticamente più nulla.

Nessun politico attuale, con qualche rarissima eccezione, fa oggi riferimento al pensiero di Garibaldi, di Mazzini o di Carlo e Nello Rosselli, per riscoprire il valore di una cultura e di una storia comuni, declinati come valore democratico, nazionale. Non è un caso che ci manchi una coscienza nazionale e che la nostra bandiera, a differenza di quanto avviene nel resto del mondo, compaia soprattutto in occasione dei mondiali di calcio. Quando vi partecipiamo …

E la Resistenza? Diventata una sorta di mito, un simulacro vuoto a cui si chiede di inchinarsi, salvo poi girarsi dall’altra parte e dimenticarsi di quanti hanno dato la vita per liberarci da fascisti e nazisti. Oggi accettiamo, ad esempio, con qualche blanda critica, che un giovanotto autocandidatosi premier – figura non contemplata dal nostro ordinamento costituzionale, ma lui forse non lo sa e nessuno neppure glielo ricorda – proponga nientemeno che l’introduzione del vincolo di mandato; una bestialità che fa a cazzotti con la democrazia liberale parlamentare, ma anche un pericoloso incipit che può ridare fiato ai nuovi fascisti per convinzione, ma soprattutto per ignoranza, che oggi vivono nell’ombra e che non vedono l’ora di fare ameno dinoi che continuiamo a parlare di parità di diritti, di giustizia sociale, di diritti di lavoratori e lavoratrici, di libertà di espressione ecc. ecc.

Cerchiamo allora oggi di ridare un po’ di sostanza e di corpo politico a una figura tra le più care ai socialisti, chiedendoci quali erano davvero le idee per cui combatteva Giacomo Matteotti e il Partito socialista di un secolo fa. Sono ancora attuali? Siamo o no all’altezza di quell’esempio?

Lascio ai relatori che interverranno dopo la mia introduzione il compito di ritrovare nella figure di Giacomo Matteotti e dei fratelli Rosselli, quel pepe che ci manca, e non solo a noi socialisti, ma a tutta la sinistra che oggi si dice riformista senza quasi nessuna eccezione.

Il sogno rivoluzionario che all’indomani della prima guerra mondiale conquista masse di derelitti e anche buona parte del movimento socialista che pensa che si possa importare la rivoluzione bolscevica anche in Italia, sfiora appena Giacomo Matteotti.

Per lui al socialismo non si arriva con un colpo di maglio rovesciando il potere sulla canna del fucile, ma attraverso l’organizzazione, la consapevolezza, l’istruzione, l’organizzazione delle masse che, nel suo caso, sono quelle contadine, dei piccoli comuni. Significa utilizzare appieno lo strumento del suffragio universale, ottenuto nel 1913 – che di universale aveva ben poco essendo destinato agli uomini sopra i 30anni, non alle donne -sconfiggendo le ingiustizie e le disparità sociali che scavano un abisso tra i proletari, gli operai, i contadini e la ricca borghesia che detiene il potere e non ha nessuna intenzione di dividerlo con altri.

Insomma Matteotti era un riformista, anche se rileggendo quello che diceva e scriveva sulla guerra o sulle ricchezze da redistribuire, oggi verrebbe tacciato di estremismo, di radicalismo politico per la sua assoluta opposizione al potere prevaricatore dei forti sui deboli.

E la moglie Velia?

E’ luogo comune dire che i grandi uomini sono spesso tali perché accanto a loro hanno donne in gamba, anche se sono “semplici”, ma solide mogli. E che per questo non compaiono, vivendo quasi obbligatoriamente nell’ombra del marito.

Velia Titta Matteotti non era nata per fare l’eroina e nemmeno ha mai pensato di farlo. Era una donna del suo tempo, nei gusti e nelle sue espressioni, colta per il suo tempo, conosceva l’inglese, a volte lo italianizza (ho forghettato, ti kisso), non si interessava di politica. Preferiva la poesia, la musica, l’arte. Era credente e praticante e per amore ha dovuto rinunciare al matrimonio religioso, perché Matteotti provava non solo…” repugnanza per l’atto religioso ma tutto il ribrezzo come di una mano estranea, fredda e viscida che si frappone fra me e voi…”. Una condizione o meglio una imposizione rivelatrice di un rapporto non proprio paritario. Si è forse lui posto il problema della “repugnanza” di lei per il solo matrimonio civile? A me Velia appare più aperta, disponibile a capire le ragioni dell’altro, a prendere su di sé l’incoerenza per… amore, con un atto di generosità e insieme di sottomissione.

Eppure è certo che Velia ha avuto un ruolo nel fare di Giacomo Matteotti la figura speciale che oggi conosciamo e ricordiamo.

Nella moglie premurosa, amante appassionata, emerge dalle lettere un’osservatrice attenta della realtà in una separazione che sarà molto lunga, solo brevemente interrotta anche per gli impegni politici di Giacomo e non solo per la persecuzione dei fascisti. Una separazione che segna pesantemente la vita di Veglia.

Nelle oltre 200 lettere raccolte nel bel volume curato da Stefano Caretti e pubblicato diciotto anni fa, la Velia Titta, che ci appare con un’immagine da borghese beneducata e benestante, lascia pian piano il posto a una donna ben più consapevole della realtà circostante e dell’impegno politico del marito.

Le lettere coprono tutti gli anni dell’unione tra i due, tra il periodo del fidanzamento nel 1912 fino all’ultima nel 1924, insieme solo per 12 anni.

La progressione della crescita civile e politica di Velia, appena visibile tra le righe, è sommessa e costante. Ed è interessante seguire il cambiamento in lei, perché tutto da scoprire proprio perché sommesso.Te la trovi cambiata nelle pagine del libro quasi senza che chi legge se ne accorga.

Il libro raccoglie in tre capitoli le lettere che iniziano con il fidanzamento e i primi mesi del matrimonio, dal settembre 1912 al luglio 1916; seguono le lettere del periodo siciliano, che arrivano fino al febbraio 1919 ed infine quelle che coincidono con l’impegno parlamentare di Matteotti, fino all’ultima del 15 maggio 1924, pochi giorni prima del rapimento.

Nelle prime lettere –sono da poco fidanzati- Velia usa toni sussiegosi e si rivolge a Matteotti chiamandolo “dottore”, poi oscilla tra il lei e il tu per scegliere presto il “tu” e insieme uno stile meno sussiegoso ma sempre molto “rispettoso”. Poi il rapporto cresce, Velia perde la soggezione, acquista sicurezza fino a divenire una interlocutrice a volte polemica, e una convinta sostenitrice del marito.

Ha già le idee chiare su come sarà la loro vita insieme. Già sa che la politica sarà tutta la vita di lui e tutto ruoterà attorno ad essa.

Si capisce presto che accetterà le conseguenze del suo, di lui,essere politico, il vivere a lungo separati, un distacco a volte anche di pochi km, lei a Messina e lui a Campo inglese, riempito di tenerezze da lontano:“… mi pare che l’anima mia canti dopo che l’hai baciata….”, “a rivederci presto, per tutte le carezze che l’aspettano”.

Il periodo siciliano, poco più di due anni e mezzo, vede Velia prendere coraggio nella relazione e consapevolezza della sua importanzanella vita di Matteotti, spedito in Sicilia per tenerlo lontano dal fronte e persino dalle retrovie.: “…mi pare dei momenti, che tanto io che te, non abbiamo al mondo che l’un l’altro, e non più”;

Nelle lettere troviamo commenti, pareri, apprezzamenti e giudizi su discorsi, articoli e comportamenti del marito e di altri politici.

In una lettera del 18 ottobre 1917 non solo esprime il suo parere, contrario, sulle dimissioni che il segretario del partito socialista Lazzari chiede ai sindaci socialisti per affrettare le conclusioni della guerra, ma chiede al marito di reagire: “Io vorrei sapere soltanto che tu non approvi…che tu non coopereresti a far dimettere i sindaci…vorrei mandassi a Lazzari qualche parola per impedire…”.

In una lettera del febbraio 1922 parla di un intervento di Matteotti alla Conferenza di Milano e lo critica con molta severità.

Così come critica il comportamento in aula del gruppo socialista a proposito dell’ordine del giorno di sfiducia al governo Bonomi, non per il contenuto ma per l’accanimento contro Bonomi “io trovo davvero che non avresti dovuto insistere così fino a l’ultimo momento per l’ordine del giorno….contro un morto è anche ingeneroso di gridare la malattia che ne ha determinato la fine..” E Matteotti le risponde piccato e lei a sua volta lei reagisce senza soggezione: “…può darsi che non abbia né profondità né esercizio per capire le estreme gravità delle cose pubbliche…..senza risentimento bene inteso, mai più , massimamente con te, mi metterò a parlare di cose che riguardino la tua vita parlamentare… “.

Nel libro in due passaggi (ottobre 1921 e un paio di mesi dopo) fa affermazioni che rivelano una sorta di consapevolezza femminista: “Riconosco il grande privilegio di nascere uomini…” e “Del resto credi che quando considero questi anni che sono pure i migliori, passati così senza un po’ di luce, rimango proprio a pensare che la vita de la donna è assai meschina, e mi si dilegua qualsiasi lontano desiderio come cosa vana.”

 

Le quasi duecento lettere sono disseminate di interessanti osservazioni, descrizioni di particolari minuti di vita vissuta, preziosi per comprendere appieno la vita di Matteotti nell’Italia del suo tempo.

È il novembre del ’17. Siamo alle fasi finali della guerra e Velia scrive a ‘Giaki’ che ha visto partire “artiglieri giovanissimi e forniti di casco di ferro … Sono forse i volontari per forza; ancora bimbi alcuni. È una vera pietà!” commenta atterrita e sconsolata scrivendo al marito che sa da sempre schierato contro l’intervento (come Lina Merlin), di recente anche in aperta rottura col suo partito.

Ha speso 16 soldi per comprare e spedire una forchetta di stagno al marito anziché solo 4. Si giustifica del maggior costo perché questa è placcata, “facile a pulirsi e più gradevole a mettere in bocca”. Frammenti di vita quotidiana si alternano a riflessioni, appena abbozzate, ma non meno illuminanti delle condizioni di vita dell’epoca e delle sensazioni di una donna che la guerra soprattutto, ma non solo, sta emancipando molto rapidamente, diventando interlocutrice politica del marito.

“L’articolo per la riforma burocratica mi piace” scrive a proposito di uno scritto pubblicato da Il Messaggero il 1° ottobre del 1921 “e mi piace quello della ‘Critica’” riferendosi a un articolo pubblicato nel numero del 16-31 gennaio del 1921 dalla rivista di Turati, dal titolo ‘Come si salda la bilancia commerciale’, “perché mi insegna cose che non so che sono pure tanta parte della vita collettiva”.

“Sul Corriere del 3 maggio, io ti avevo già ritagliato l’articolo di Keynes (Il rublo russo e le basi del commercio futuro) che avevo già messo nella raccolta di quelli di Einaudi, ma ti manderò la pagina intera, oggi stesso …”.

Spaccati di vita quotidiana di una coppia che vive spesso separata. Nel 1923 Velia è a Fratta Polesine, Giacomo deputato, a Roma.

Nelle lettere ancora frammenti di vita, un’influenza, una piccola ferita a un dito del figlio piccolo, ma anche l’eco della preoccupazione sorda e crescente per il clima che si sta creando nel Paese e per le minacce a Giacomo Matteotti.

Nel 1921 Matteotti viene aggredito a Ferrara dai fascisti: “Mi è difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita”.

Le aggressioni al marito sono tante, a Padova, a Siena, a Cefalù. Neppure la famiglia viene risparmiata dai fascisti e nel 1922, a Varazze, dove s’ è rifugiata con i tre figli, viene minacciata lei stessa: “Sono venuti a dirci che se ritorni non garantiscono neanche le famiglie più. Non so altro perché fuori non vado. Insultano su la strada come fossimo la peggior gente di spregio”.

 

La tempesta si sta addensando all’orizzonte.

Il 22 maggio del ’23 scrive al marito di aver rifiutato di fornire all’ufficiale giudiziario l’indirizzo esatto della casa romana: “…per ora non ha alcun nome essendo fabbricati nuovi …” scrive di aver risposto al messo che insisteva per sapere dove abitasse. La verità è che ha seguito il consiglio del marito che le aveva scritto di mantenere il segreto sull’indirizzo: “Non accusare mai alcun domicilio; sono all’albergo e spesso cambio dall’uno all’altro. In caso manda a dire che ultimamente ero all’Hotel Cesari; ma il mio indirizzo è Camera Deputati”.

Velia non è una militante socialista come il marito. Non ne ha sposato le idee acriticamente solo perché ne è la moglie. Il rapporto è diventato sempre più diretto, schietto, sincero. I tempi sono sempre più bui e entrambi sono preoccupati per il futuro.

“E’ vero sì, io non ti ho mai dato il mio consenso per le tue idee che tu hai professato con la più grande onestà, di fronte alla quale io mi sento incapace di giudicarti …”

 

L’ultima lettera del 15 maggio del 1924 è commovente per la sua normalità. Velia racconta delle visite alle gallerie di Brera, di un concerto a Verona, delle congratulazioni ricevute per la sua elezione.

Il 10 giugno rapiscono il marito e il corpo verrà ritrovato solo due mesi dopo, il 16 agosto, ma nel frattempo si consuma un’altra violenza non fisica, ma morale nei confronti di Velia e della sua famiglia di cui forse troppo poco si è detto e scritto.

Il Giornale d’Italia ricostruisce in modo falso l’incontro tra Mussolini e Veglia avvenuto 5 giorni dopo la scomparsa del marito. Troviamo notizie “vere” dell’incontro nelle lettere successive, una di Turati ad Anna Kuliscioff del 12 luglio del 1924 ma anche più tardi, in una lettera di Velia due anni dopo l’assassinio. Scrivendo a Salvemini, Velia smentisce quasi rabbiosamente la strumentalizzazione di quell’incontro con Mussolini quando ancora il cadavere del marito non era stato ritrovato. Era lei ad aver chiesto l’incontro. Un atto di forza, quasi una provocazione per costringere Mussolini a scoprirsi. Che coraggio!

Invece il Giornale d’Italia ricostruisce ben diversamente i fatti per utilizzarli come propaganda a difesa del fascismo. Nel racconto, un Duce commosso e premuroso, scorge Velia che assiste al discorso del presidente della Camera sulla vicenda, la fa chiamare a colloquio, lei singhiozza, lui le promette giustizia.

Tutto falso. Balle raccontate per alleggerire la pressione sul fascismo di un fatto che, si avvertiva chiaramente, avrebbe costituito lo spartiacque definitivo tra un partito politico e la sua trasformazione in regime, uno spartiacque anche per gli oppositori chiamati a scegliere da che parte stare. Ma c’è altro dietro le righe della lettera a Salvemini.

 

Oggi sappiamo che la vedova Matteotti era in grandissime difficoltà economiche. Doveva non solo mantenersi, ma crescere anche i tre figli, Giancarlo, Matteo e Isabella. E il fascismo la tampina, la controlla in mille modi, giorno e notte.

Sono riusciti perfino a infiltrare in casa una persona che godeva della fiducia di Velia perché amico di lunga data del marito, Domenico De Ritis, divenuto informatore della polizia col nome in codice Tisde 331. De Ritis, con l’aiuto del cognato di Velia, Casimiro Wronoski, anche lui collaboratore di polizia, la convince ad accettare l’aiuto economico del regime così prevenendo nei fatti che Velia possa sostenere campagne contro il fascismo nel nome di Matteotti. Diventa di fatto prigioniera a piede libero e vive in silenzio anche il ricatto, pure negli ultimi pochi anni della sua vita che consumerà a Roma.

Ma la violenza contro la famiglia Matteotti proseguirà anche dopo la sua morte quando le due spie, De Ritis e Wronoski, verranno nominati tutori dei tre figli, nel tentativo, peraltro riuscito, di mantenerli sotto il controllo totale del regime.

Dai documenti emersi poi dagli armadi dell’Ovra, come si sarebbe chiamata la polizia segreta dopo il 1930, apprendiamo l’interesse a impedire che la figura di Matteotti venisse usata contro il regime. “Pregasi intensificare vigilanza sulla vedova e sui figli on. Matteotti tenendo sempre particolarmente presente eventualità tentativi uscire clandestinamente dal Regno… Attuazione eventuali tentativi del genere deve essere resa impossibile”.

Velia è una prigioniera sotto stretta sorveglianza che lei stessa in una lettera definirà come un’autentica schiavitù.

È lo stesso Mussolini ad annoverarla tra i suoi nemici e ci sono parole che atterriscono. Racconta Galeazzo Ciano il 18 giugno del ’38, nel suo ‘Diario 1937-1943’, che qualche giorno dopo la morte di Velia, avvenuta in ospedale a soli 48 anni dopo una delicata operazione, Mussolini, commentando l’atteggiamento da tenere nei confronti degli oppositori interni ed esterni al regime – si riferiva anche a Balbo – disse: “I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici”.

Lo storico Mauro Canali scrive che la spia De Ritis sarà smascherata quando, dopo la liberazione, finiranno nelle mani dei partigiani i documenti dell’Ovra e “ fu Nenni a mettere in guardia Matteo Matteotti dal suo vecchio tutore. Ma egli continuerà a difenderlo anche davanti all’Alto Commissariato per i reati fascisti”.

Ma questa è un’altra storia.

Per tornare a Velia e alle sue lettere, queste proprio perché private, perché autentiche nella loro schiettezza di racconto quotidiano di vita vera, ci confermano indirettamente anche l’immagine che di Giacomo Matteotti abbiamo e che lui stesso ha cercato di dare di sé. Un laico convinto, un uomo di cultura che leggeva Einaudi, Wells e Keynes, un socialista dagli ideali fermissimi.

Giacomo Matteotti non dobbiamo ricordarlo solo come un martire del fascismo, ma anche come un politico, un socialista che combatteva per la libertà e la giustizia sociale, un economista che difendeva le idee liberali di Keynes, che intervenendo alla Camera nel giugno del ’23 afferma “ …la disputa non è fra liberalismo e protezionismo, ma ritorna sotto di essa la disputa fondamentale, l’immanente contrasto degli interessi di classe…” e poi invita a lavorare attivamente per la libertà degli scambi o per l’avviamento al libero scambio. ….E più avanti nel discorso: “Sollecitiamo ardentemente con l’opera nostra, che è nazionale e insieme –passaporto permettendo- internazionale, la formazione degli Stati Uniti d’Europa, non rimandandola dopo il socialismo, ma affrettandola praticamente perché essi costituiscono un anticipo al socialismo, un avviamento al socialismo…”

Queste cose, il suo pensiero dobbiamo far conoscere.

E altrettanto dobbiamo fare per Carlo e Nello Rosselli che avrebbero subito la stessa violenza omicida 13 anni dopo, nel giugno del ’37.

Fare della retorica è facile, ma è inutile.

Il modo migliore per onorare la memoria di queste persone è quello di studiarne il pensiero e il ruolo che ebbero nella storia del socialismo italiano e di tutto il Paese e diffonderlo e praticarlo, facendo del riformismo una tematica di cose concrete all’interno di una visione complessiva. Questo non è propriamente facile oggi.

Ma se non noi socialisti, allora chi?


Categorie