mercoledì 11 Dicembre 2013

Algeri, Conferenza “Effective and sustainable participation of women in elected Assemblies”


Algeri, Conferenza “Effective and sustainable participation of women in elected Assemblies”

 “Conferenza Internazionale delle Donne Elette” con Cristina Amaral Direttrice del Sistema ONU in Algeria e Rappresentante del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, UNDP, e la dr. Federica Tagliani, funzionaria della Camera dei Deputati.


RAPPRESENTANZA DI GENERE NELLE ASSEMBLEE ELETTIVE IN ITALIA

La questione della rappresentanza di genere nelle assemblee elettive è una questione cruciale nelle democrazie moderne.
Senza scendere nel dibattito filosofico-politico sul tema, si può partire da una constatazione all’apparenza elementare: la società è composta più o meno in ugual misura da donne e uomini; ci si aspetterebbe di conseguenza che le istituzioni rappresentative, che sono – o almeno dovrebbero essere – lo specchio di quella società, fossero composte in misura più o meno analoga da donne e uomini.
Nel campo della politica, il problema non è tanto quello della capacità, del merito, della competenza, ma più semplicemente quello della rappresentanza: un’insufficiente rappresentanza di donne all’interno delle istituzioni rappresentative impoverisce il confronto dialettico che deve svolgersi al loro interno, limita lo spettro di risposte che quelle istituzioni sono tenute a fornire alle domande che provengono dal Paese.
A prescindere dalle questioni di numeri, di percentuali, di quote, il problema è di tipo qualitativo ed è un problema di qualità della democrazia, intesa come capacità della democrazia di essere pienamente espressione di tutte le istanze che emergono dalla società.
Nel campo della politica è vera più che mai l’equazione equality = quality, parità = qualità. 

La piena rappresentanza delle donne in politica è per così dire ‘naturale’ nei Paesi dove la parità tra i generi è già stata raggiunta a livello sociale ed è praticata nella quotidianità, come nel pluricitato esempio degli Stati del Nord Europa. Nei Paesi dove esistono i servizi per la famiglia, in cui le responsabilità familiari sono equamente ripartite tra uomo e donna, dove l’organizzazione del lavoro tiene conto delle esigenze di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, è ben più facile trovare donne che occupano posizioni chiave nei processi decisionali.

Ma nei paesi, come l’Italia, dove questo non accade, è necessario mettere a punto specifiche misure volte a favorire la presenza delle donne nei luoghi del potere.

In questo senso depone la nostra Costituzione, che dispone che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza e che affida alla Repubblica il compito di promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini (art. 51, primo comma).

Nonostante l’Italia non brilli in materia di uguaglianza di genere – il rapporto recentemente diffuso sul Global gender gap la vede al 71° posto – un segnale incoraggiante per quanto riguarda la presenza delle donne in politica è venuto dalle elezioni politiche nazionali del febbraio di quest’anno, a seguito delle quali per la prima volta la presenza femminile alla Camera dei deputati si è attestata al 31,4%, con un aumento di 10 punti percentuali rispetto alla legislatura precedente. E’ stata così superata per la prima volta la soglia del 30 per cento, generalmente considerata una soglia minima (e sottolineo minima) per garantire un’adeguata rappresentanza delle donne. Ugualmente soddisfacente appare il dato del Senato, dove le senatrici sono il 28,6%; anche in questo caso il miglioramento rispetto alla legislatura anteriore è stato di ben 10 punti percentuali.

La presenza femminile si è fatta subito sentire. Non è certo un caso che uno dei primi atti del nuovo Parlamento sia stata la ratifica della Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

In ambito nazionale, le disposizioni di legge vigenti volte a favorire la rappresentanza di genere sono peraltro ancora piuttosto blande.

Esiste una sanzione finanziaria per i partiti che presentano alle elezioni un numero di candidati del medesimo genere superiore ai due terzi, calcolato sul complesso delle liste presentate dal partito; la sanzione consiste in una riduzione del 5 per cento del finanziamento pubblico ai partiti.

Più interessante appare la disposizione che impone ai partiti e ai movimenti politici l’obbligo di destinare una quota pari almeno al 5 per cento del finanziamento pubblico ad iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica, prevedendo anche in tal caso una sanzione pecuniaria.

Come dicevo, queste disposizioni risultano comunque poco stringenti. Ben più hanno contato le politiche adottate dai singoli partiti per favorire la presenza delle donne. L’attuale sistema elettorale prevede infatti l’elezione attraverso un sistema di liste bloccate, senza possibilità per l’elettore di esprimere un voto di preferenza. I parlamentari sono eletti sulla base dell’ordine della lista deciso dai partiti, che quindi hanno nei fatti il controllo degli eletti. Alcuni partiti hanno deciso di formare le liste in maniera da raggiungere l’obiettivo del 35-40% di presenza femminile e i risultati si vedono. E’ vero che il dato complessivo alla Camera dei deputati è pari al 31,4%, ma vi sono gruppi parlamentari che sfiorano il 38% e gruppi che non hanno donne tra i propri eletti.

Interventi più incisivi volti a rafforzare la presenza femminile nelle assemblee parlamentari nazionali sono attesi dalla riforma della legge elettorale in corso di discussione. Uno dei pochi punti su cui allo stato si registra un’ampia condivisione tra i gruppi parlamentari è proprio quello della promozione della rappresentanza di genere.

Risultati positivi sono stati inoltre ottenuti nelle elezioni comunali, grazie all’introduzione di specifiche misure in materia elettorale ad opera di una legge del 2012 (legge 23 novembre 2012, n. 215). Nelle elezioni per i consigli comunali si vota con un sistema per liste che vede, a differenza delle elezioni nazionali, l’espressione di un voto di preferenza da parte degli elettori. La legge del 2012 ha messo a punto un misura che tende a salvaguardare la libertà di scelta dell’elettore e al contempo ad incentivare l’elezione di donne.

È stata innanzitutto introdotta una cosiddetta ‘quota di lista’: nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi. La violazione di questa disposizione, per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, determina l’inammissibilità della lista, sanzione ben più efficace rispetto alla sanzione puramente finanziaria prevista per le elezioni nazionali.

Il secondo strumento volto ad incentivare la presenza femminile costituisce una peculiarità del sistema elettorale comunale italiano, dato che non mi risulta che vi siano sistemi analoghi negli altri ordinamenti. Si tratta della cosiddetta ‘doppia preferenza di genere’, che consente all’elettore di esprimere due preferenze (anziché una, come previsto dalla normativa previgente) purché riguardanti candidati di sesso diverso. Il sistema funziona dunque così: l’elettore è libero di scegliere se esprimere una o due preferenze, ma se esprime due preferenze deve votare necessariamente due candidati di sesso diverso, altrimenti la seconda preferenza viene annullata. La doppia preferenza di genere ha anche un vantaggio per così dire ‘culturale’, ossia quello di richiamare l’attenzione dell’elettore, al momento dell’espressione del voto – cioè nel momento culminante della democrazia – sull’importanza della rappresentanza di genere: l’elettore sa che per esprimere compiutamente il suo voto con le due preferenze deve votare una donna e un uomo.

Il sistema è stata applicato per la prima volta nelle elezioni comunali che si sono svolte nel maggio di quest’anno e ha dato frutti molto positivi. Ad esempio nell’Assemblea capitolina, ossia nel consiglio di Roma capitale, la presenza femminile è balzata da uno striminzito 7% (con 4 consigliere su 60 componenti del consiglio) ad un soddisfacente 31% (con 15 consigliere su 48 componenti).

Merita infine di essere richiamata l’esperienza delle elezioni regionali, la cui disciplina è dettata autonomamente da ciascuna delle 20 regioni. Esiste in proposito una specifica disposizione costituzionale secondo cui le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive (art. 117, settimo comma, Cost.).

In attuazione della disposizione costituzionale le regioni hanno dunque adottato sistemi elettorali diversi, con specifiche misure per favorire la partecipazione delle donne, per lo più incentrate sulle cosiddette ‘quote di lista’, ossia sull’obbligo di inserire nelle liste di candidati un quota minima di candidati del genere meno rappresentato, variabile tra un terzo e la metà. Una sola regione, la Campania, prevede anche la doppia preferenza di genere; anzi è stata proprio la legge della Campania a costituire il modello cui si è ispirato il legislatore nazionale per le elezioni comunali.

Il confronto sui risultati della presenza femminile nelle 20 assemblee regionali offre spunti interessanti per capire come questa presenza sia in parte lo specchio della situazione socio-economica dell’area di riferimento, in parte il frutto di specifiche misure delle legge elettorale.

In generale, la presenza media delle donne nei consigli regionali è molto bassa, attestandosi intorno al 13%, sensibilmente al di sotto del dato delle elezioni nazionali. A livello regionale, gli organi territoriali dei partiti sono dunque tendenzialmente più conservatori e meno disposti ad aprire all’accesso delle donne.

Dall’analisi dei meccanismi elettorali emerge inoltre che le quote di lista determinano l’effetto di aumentare il numero donne candidate. Nelle regioni che prevedono quote, la percentuale di donne sul totale dei candidati è sempre superiore rispetto alle regioni che non le applicano; ma all’aumento del numero delle candidate non sempre corrisponde un aumento del numero delle elette. Ad esempio, nelle Regione Lombardia, regione del Nord, è previsto che le liste siano composte seguendo l’alternanza di genere, e quindi con il 50% di candidature riservate alle donne, ma le elette alla fine sono state meno del 19 per cento.

Un altro dato rilevante è che la presenza femminile è in generale maggiore nelle regioni del Centro-Nord rispetto a quelle del Sud; questo dato molto probabilmente è dovuto a fattori di ordine culturale e sociale. Le regioni meridionali sono infatti quelle in cui la parità tra i generi stenta ad affermarsi a livello sociale, dove, ad esempio, i dati sul tasso di occupazione femminile sono a livelli veramente allarmanti.

Eppure è proprio una regione del Sud, la Campania, che ha la più alta percentuale di donne elette al Consiglio regionale, il 23 per cento. Qui entra veramente in gioco il sistema elettorale. Perché la Campania, come visto, è l’unica regione che ha introdotto la doppia preferenza di genere, che ha consentito . La lezione che proviene dalla Campania è importante perché dimostra come specifici strumenti elettorali possono determinare il superamento del gap tra i generi che esiste a livello economico e sociale.

Segnalo un ultimo dato, che accomuna le esperienze nazionali, regionali e locali: la presenza di donne nelle assemblee elettive è ovunque in costante crescita, secondo una linea di tendenza che accelera laddove sono previsti specifici meccanismi elettorali.

Concludo ricordando come su questa oramai inarrestabile – almeno spero – crescita della presenza femminile nelle istituzioni rappresentative abbia sicuramente influito la sempre più attiva mobilitazione delle associazioni femminili, che molto si sono spese per l’affermazione della democrazia paritaria e hanno dato un contributo fondamentale alla sempre maggiore consapevolezza da parte dei partiti politici e della società nel suo complesso dell’importanza della rappresentanza di genere.