PROPOSTA DI LEGGE
d’iniziativa dei deputati
TINAGLI, GIULIANI, CARFAGNA, CAPUA, CARLONI, CENTEMERO, DI SALVO, PALESE, PARIS, PICCOLI NARDELLI, SALVATORE PICCOLO, GIUDITTA PINI, PRESTIGIACOMO, FREGOLENT, GALGANO, GRIBAUDO, MARTELLI, MICCOLI, MOGNATO, QUINTARELLI, BERRETTA, COPPOLA, COVELLO, DALLAI, MARCO DI MAIO, D’INCECCO, DONATI, FANUCCI, FEDI, GADDA, GINOBLE, GIULIETTI, GRECO, LA MARCA, LOCATELLI, MARAZZITI, MORETTO, MOSCATT, NARDI, PARRINI, SENALDI, TARTAGLIONE, VENITTELLI
Agevolazioni fiscali in favore delle lavoratrici madri con figli minori inattive da almeno tre anni
Presentata il 22 giugno 2015
Onorevoli Colleghi! La partecipazione femminile al mondo del lavoro è un elemento fondamentale per lo sviluppo economico e sociale, che contribuisce alla crescita di un Paese e alla sua prosperità. Eppure il contributo che le donne danno all’economia delle comunità in cui vivono è ancora significativamente inferiore a quello che vorrebbero e potrebbero dare.
Con l’adesione alla Strategia Europa 2020 l’Italia si è impegnata ad aumentare il tasso di occupazione delle persone in età compresa tra i 20 e i 64 anni «anche mediante una maggior partecipazione delle donne», che in Italia è particolarmente bassa, nonché a «promuovere nuove forme di equilibrio tra lavoro e vita privata, parallelamente a politiche di invecchiamento attivo, così come la parità fra i sessi».
Nonostante siano passati già cinque anni dall’adesione alla Strategia Europa 2020 (e quindici anni dalla Strategia di Lisbona che conteneva obiettivi analoghi sul fronte occupazione e della parità fra i sessi), il livello di adempimento di tali impegni è molto basso e la situazione non solo stenta a migliorare, ma negli ultimi anni, a causa della crisi economica, ha fatto registrare un peggioramento su molti fronti.
I dati più recenti, presentati dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) all’inizio del mese di aprile 2015 denunciano una situazione di emergenza per quanto riguarda la disoccupazione femminile che è tornata a salire, arrivando per il mese di febbraio 2015, al picco del 14,1 per cento contro la sostanziale stabilità del dato maschile, fermo invece all’11,7 per cento. Un dato che segna un sostanziale peggioramento ( 0,9) rispetto al febbraio 2014. Aumenta leggermente il numero delle donne che cerca lavoro (contribuendo in parte a far salire il tasso di disoccupazione, ma resta altissimo il tasso di inattività femminile: quasi 9 milioni di donne tra i 15 e i 64 anni che non svolgono alcun lavoro, ovvero il 45,5 per cento della popolazione femminile in età lavorativa, contro i circa 5 milioni di uomini inattivi, corrispondenti al 26,4 per cento di quella maschile.
Il rapporto evidenzia, dunque, il persistere di una bassa partecipazione al mercato del lavoro; la quota di occupate, infatti, è del 46,8 per cento, inferiore di 12,4 punti al valore medio dell’Unione europea.
Il dato negativo è in parte mitigato da alcuni fattori come il contributo delle occupate straniere, che sono aumentate di 359.000 unità tra il 2008 e il 2013 (a fronte di un calo delle italiane di 370.000 unità), l’aumento di quante entrano nel mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner nel Mezzogiorno e, soprattutto, delle occupate con 50 anni e più per l’innalzamento dell’età pensionabile.
Tuttavia, appare importante segnalare che nella fascia di età tra 15 e 49 anni il tasso di occupazione è diminuito per tutte le donne, siano esse single, in coppia o monogenitore. Con particolare aggravio per le donne con figli, soprattutto al sud.
Come ha denunciato l’ultimo rapporto annuale dell’ISTAT del mese di maggio 2014, nel Mezzogiorno le madri occupate sono il 35,3 per cento, poco più della metà del centro-nord. Peggiora, inoltre, la già difficile conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle donne, che sono ancora troppo spesso costrette a uscire dal mercato del lavoro in occasione della nascita dei figli: è andata aumentando, infatti, la quota di madri che non lavora più a due anni di distanza dalla nascita dei figli (22,3 per cento nel 2012 dal 18,4 del 2005), soprattutto nel Mezzogiorno dove arriva al 29,8 per cento.
È aumentata di 4 punti percentuali, raggiungendo il 42,7 per cento, anche la quota di neomadri che hanno un lavoro e che segnalano difficoltà di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Già i dati di una precedente indagine, pubblicati da un rapporto di Italia lavoro Spa e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali nel 2012, avevano indicato come la nascita dei figli in Italia rappresenti uno dei fattori più rilevanti nel frenare la partecipazione femminile al mondo del lavoro, molto più che negli altri Paesi europei. Mentre in Francia e in Olanda, ad esempio, le differenze tra i tassi di occupazione delle donne senza figli, con un figlio e con due figli sono modestissime e lo scarto diviene significativo solo a partire dal terzo figlio, in Italia la differenza tra il tasso di occupazione delle donne senza figli e quelle con un figlio è di 4 punti, con due figli è di 10 punti e con tre figli o più è addirittura di 22 punti.
Non a caso l’Italia è il Paese europeo nel quale più alta è la percentuale di coppie in cui lavora solo il maschio e le donne scelgono di dedicarsi alle attività domestiche e di cura: il 37,2 per cento contro una media europea del 24,9 per cento – dato che scende ulteriormente nei Paesi nordeuropei, con il 12,5 per cento della Svezia e l’11,9 per cento in Danimarca. Il modello tradizionale di coppia nel quale solo l’uomo provvede al sostentamento della famiglia prevale nel Mezzogiorno dove in oltre la metà delle famiglie lavora solo l’uomo, mentre nel nord questa percentuale si riduce a circa un quarto (25,2 per cento nel nord-ovest e 21,3 per cento nel nord-est).
Sempre dal citato rapporto sappiamo che il 27 per cento delle donne che hanno cessato volontariamente il rapporto di lavoro lo ha fatto a causa della maternità o della nascita di un figlio (14,9 per cento) oppure per prendersi cura dei figli o di altre persone non autosufficienti (12,2 per cento). Solo lo 0,5 per cento degli uomini ha abbandonato il lavoro per prendersi cura dei figli. La maggioranza delle donne che lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio considera questa scelta provvisoria e reversibile. Tuttavia, le interruzioni che si trasformano in un’uscita prolungata dal mercato del lavoro risultano molto più elevate per le donne residenti nel Mezzogiorno. In Valle d’Aosta e nel Lazio metà delle donne abbandonano il lavoro per maternità o per curare la famiglia, il 9 per cento in Umbria e il 10 per cento in Toscana. Nelle regioni del centro-nord si registrano le percentuali maggiori di abbandoni del lavoro per motivi familiari (31 per cento) rispetto al Mezzogiorno (19,7 per cento). Anche se le donne occupate nel Mezzogiorno hanno una minore propensione ad abbandonare il lavoro dal momento che sono consapevoli che sarà molto difficile ritrovarlo, tuttavia nelle regioni meridionali le interruzioni che si trasformano in un’uscita prolungata oltre cinque anni sono pari al 77,1 per cento contro il 57,2 per cento del nord-est.
Le indagini menzionate hanno inoltre evidenziato che la decisione di molte madri di abbandonare o non cercare un lavoro non dipende, per una quota importante delle donne inattive, dalla carenza di servizi per l’infanzia, ma è una scelta più o meno volontaria, provocata sia da fattori culturali che da considerazioni di natura economica. Infatti i modesti livelli retributivi di molte donne rendono poco conveniente o addirittura insostenibile affidare la cura dei figli a personale retribuito o a strutture pubbliche o private che richiedono il pagamento di una retta. Questa evidenza segnala che l’indispensabile aumento dell’offerta e della qualità dei servizi per l’infanzia non è l’unica misura necessaria per aumentare l’occupazione femminile perché occorre intervenire anche con misure fiscali per aumentare la convenienza a lavorare delle donne con figli.
Numerosi studi internazionali, tra cui una discussion note del Fondo monetario internazionale pubblicata nel febbraio 2015 («Fair Play»), hanno evidenziato l’importanza della leva fiscale per stimolare le donne a cercare lavoro, confermando una maggiore elasticità dell’offerta di lavoro femminile alle politiche fiscali.
Le politiche per la ripresa economica nel nostro Paese non possono dunque prescindere da azioni volte a rompere il circolo vizioso che relega la maggior parte delle donne italiane nel sistema del lavoro domestico escludendole da quello del lavoro professionale. È divenuto più che mai urgente trasformare l’enorme giacimento di capitale umano femminile presente nel nostro Paese, largamente inutilizzato o sottoutilizzato, in un fattore fondamentale per la ripresa dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale, con ciò passando dal tipico equilibrio «vetero-mediterraneo» attuale, caratterizzato dalla bassa partecipazione femminile, a un equilibrio più virtuoso, che consenta la liberazione di questo potenziale latente di energie e competenze.
Il «dividendo sociale» di questo investimento è evidente: più donne occupate nel tessuto produttivo regolare significa più sviluppo, aumento del tasso di natalità, famiglie più dinamiche e sicure economicamente nonché meno bambini in condizioni di povertà.
A tale fine la presente proposta di legge prevede, in via sperimentale, una semplice misura di incentivazione fiscale che mira direttamente a promuovere il lavoro delle donne con figli, ovvero le più fragili nel mercato del lavoro, a maggiore rischio di abbandono, una misura utile anche in funzione del raggiungimento dei traguardi fissati dalla citata Strategia Europa 2020. A sostegno di questa scelta va ribadito come la domanda e l’offerta di lavoro femminile siano assai più elastiche rispetto a domanda e offerta di lavoro maschile: il che consente di confidare in un effetto della riduzione dell’imposta molto positivo sui livelli occupazionali.
La misura non può essere qualificata come discriminatoria in ragione del genere dei lavoratori, dal momento che essa è esplicitamente mirata a superare un assetto socio-economico produttivo di effetti discriminatori a carico delle donne: essa può e deve dunque essere qualificata come «azione positiva» volta a raggiungere un obiettivo al cui perseguimento la Repubblica italiana è vincolata dall’Unione europea (che all’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prevede l’adozione di iniziative che assicurino la parità tra uomini e donne in tutti i campi, esplicitando oltretutto che «Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato»). L’adozione di azioni positive al fine di raggiungere pari opportunità tra uomini e donne è inoltre prevista dall’articolo 51 della Costituzione.
La normativa punta esplicitamente a far sì che, a parità di reddito percepito, il prelievo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) su quello della contribuente lavoratrice donna sia significativamente inferiore a quello esercitato sul reddito identico del lavoratore maschio.
Venendo ad illustrare più dettagliatamente gli aspetti della misura, va precisato che essa consiste in una forte riduzione del prelievo fiscale sui redditi da lavoro a favore di tutte le donne con figli minori che decidano di rientrare nel mercato del lavoro dopo almeno tre anni di inattività, siano esse lavoratrici dipendenti, economicamente dipendenti o autonome. In particolare, si prevede per tale platea l’applicazione di aliquote dell’IRPEF ridotte per i cinque periodi d’imposta successivi all’inizio dell’attività lavorativa (articolo 1).
Il taglio – concentrato in prevalenza sul primo scaglione di reddito, per il quale il prelievo è portato a zero (no tax area fino a 15.000 euro) – è tale da comportare una riduzione d’imposta per tutti i redditi di lavoro, di qualunque natura e importo. L’entità della riduzione in rapporto al reddito netto attuale è resa tuttavia più intensa per i redditi fino a 28.000 euro, cioè per la fascia di reddito in cui si concentra a tutt’oggi il maggior numero di contribuenti donne. In particolare, si prospetta un incremento del reddito disponibile che raggiunge il 30 per cento per i redditi fino a 15.000 euro e il 24 per cento per i redditi compresi tra 15.000 e 28.000 euro, per scendere al 15 per cento per i redditi fino a 55.000 euro e ridursi ulteriormente per i redditi maggiori (articolo 2).
Per le donne residenti nelle aree o occupate nei settori in cui il tasso di partecipazione al lavoro delle donne è inferiore per almeno il 25 per cento al tasso medio nazionale riferito a tutti i settori economici, in aggiunta al regime speciale di imposizione previsto dall’articolo 2, è prevista l’applicazione di una specifica detrazione forfetaria d’imposta sul reddito personale, articolata secondo tre fasce di reddito, entro il limite di 40.000 euro annui (articolo 3). Questa ulteriore detrazione, mirata a riconoscere una tutela più intensa alle donne in posizione di particolare svantaggio, territoriale o professionale, è in linea con la qualificazione di «lavoratore svantaggiato per genere» di cui al regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014.
Trattandosi di una defiscalizzazione a beneficio esclusivo di lavoratrici non inserite nel mercato del lavoro e con scarsa probabilità statistica di rientrarvi, essa non dovrebbe comportare alcuna perdita di gettito nel breve-medio periodo, mentre comporterebbe, al contrario, un aumento del gettito particolarmente consistente quando le lavoratrici esauriscano il periodo di tassazione agevolata e restino comunque nel mercato del lavoro. Tuttavia, all’articolo 5, si è predisposta una norma di copertura finanziaria volta a fare fronte ad oneri stimati in un massimo di 250 milioni di euro annui.
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
(Finalità).
Art. 2.
(Regime speciale di imposizione sui redditi).
articolo, le seguenti aliquote per scaglioni di reddito:
Art. 3.
(Lavoratrici residenti nelle aree svantaggiate).
Art. 4.
(Monitoraggio).
Art. 5.
(Copertura finanziaria).
limite di 250 milioni di euro annui, mediante i risparmi di spesa di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo.
devono essere conseguiti da ciascuna amministrazione pubblica secondo un rapporto di diretta proporzionalità rispetto alla consistenza delle rispettive dotazioni di bilancio. In caso di accertamento di minori economie, si provvede alla corrispondente riduzione, per ciascuna amministrazione pubblica inadempiente, delle dotazioni di bilancio relative a spese non obbligatorie, fino alla totale copertura dell’obiettivo di risparmio ad essa assegnato.