“Ogni volta che sento parlare di donne e religione, nella testa mi si accende un segnale luminoso che dice ‘sacerdozio femminile’. L’impegno delle donne nella Chiesa continua ma il livello di potere non mi pare abbia fatto grandi passi avanti, soprattutto è rimasto il ruolo ancillare delle donne che fanno carriera ma all’interno di questa separatezza di ruoli maschili e femminili”.
Lo ha detto Pia Locatelli intervenendo al 5° convegno “Donne e Religioni. Dialogo e confronto tra scienza, teologia e istituzioni”, sul tema “Sottomissione o libero arbitrio?” che si è svolto a Roma, presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati.
Pia Locatelli ha citato il caso della Chiesa anglicana, che contrariamente a quella cattolica ha da anni ammesso le donne al sacerdozio e approvato l’episcopato femminile, come buona prassi da copiare: “Il mio è un invito pressante a superare una resistenza, un’incapacità a trasformarsi di pari passo con l’evolversi della società”.
il testo del mio intervento
Nella storia – e mi riferisco a secoli, non a decenni – la separatezza tra spazio pubblico e spazio privato era netta: il privato, nel senso di domestico, era il mondo delle donne, il pubblico quello degli uomini. Ma mentre gli uomini avevano accesso sia allo spazio pubblico sia a quello privato, per le donne l’accesso al mondo pubblico è stato interdetto appunto per secoli. Con il tempo questa separatezza, con maggiore forza nel nostro mondo occidentale, è venuta via via meno: sempre più donne sono uscite dallo spazio privato e sono entrate nel mondo del lavoro, nel mondo della politica, nel mondo della educazione, della scienza, della ricerca. Moltissime le difficoltà incontrate perché questi accessi diventassero fatti “normali” e perché poi il “fare carriera” comportasse ostacoli e/o opportunità equamente distribuiti. Non possiamo dire di aver raggiunto la parità, possiamo però dire che il principio dell’uguaglianza è ormai accolto e condiviso. Cosa diversa è la sua attuazione, nel senso che c’è ancora molta strada da percorrere, ma almeno possiamo parlare di uguaglianza de iure anche se non ancora completamente de facto.
Due giorni fa abbiamo celebrato la festa della nascita della Repubblica, che coincide con l’esercizio del diritto di voto alle donne. Un grande passo ma solo l’inizio, infatti l’uguaglianza de iure è stata costruita negli anni, anche dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale; ad esempio, abbiamo aspettato circa 15 anni dalla sua approvazione perché alle donne non fosse preclusa la carriera in magistratura. Questa è stata una grande conquista, seguita da altre importanti, ma, come dicevo, c’è ancora molta strada da percorrere. Si sono appena concluse le elezioni in sette regioni e i risultati non sono certamente entusiasmanti: una donna su cinque componenti i nuovi consigli regionali: 20%, una percentuale ben lontana non solo dalla parità ma dalla soglia considerata minima perché una voce, una presenza, in questo caso quella femminili, possa farsi valere.
Viviamo in una società che non ha ancora dismesso una concezione patriarcale, radicata sul piano organizzativo e soprattutto nella cultura diffusa. Sradicare l’organizzazione patriarcale della società è difficile, richiede conoscenza, consapevolezza, capacità di lettura “sofisticata”, mezzi e politiche coerenti.
Un esempio: è diffusa la convinzione che la nostra Costituzione sia tra le migliori al mondo e capisco, come molti sostengono, che risente della cultura del tempo in cui fu scritta, ma devo sottolineare che non condivido per nulla il contenuto dell’articolo 37 che afferma che la funzione essenziale della donna è quella familiare e materna. Io non sono madre, sono una single, non svolgerei quindi il compito che la Costituzione mi assegna o assegnerebbe, ma io non mi sento monca, mancante della “funzione essenziale”. E ancora, sempre l’art 37, 1° comma: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione…”. Si dice che l’organizzazione del lavoro deve essere “aggiustata” perché alla donna lavoratrice sia consentito svolgere la funzione essenziale familiare e le si assicura una protezione speciale…. Come potrei essere d’accordo? Con questo articolo si conferma che l’ambito “naturale” delle donne è quello privato, della famiglia, e, se escono da quell’ambito, le donne vanno protette. E poi: dove sta la funzione degli uomini nella famiglia?
Perché questa lunga premessa? C’è una ragione, che spiegherò.
C’è chiaramente una relazione tra quanto accade nella società e quanto accade nel mondo della religioni e delle Chiese. Con una differenza: la “questione femminile” (ma potremmo anche chiamarla “questione maschile”) nel mondo delle religioni si pone in modo esplicito in quanto è esplicito il rifiuto della presenza e della partecipazione attiva paritaria delle donne, a partire dall’amministrazione del culto ma non solo in questo ambito. Pensate al Sinodo dei Vescovi: è stata considerato un grande progresso che siano state ammesse alcune osservatrici. A me, che considero l’uguaglianza e la parità tra uomini e donne come fondamento della cittadinanza e della convivenza democratica, pare paradossale ritenerlo una “conquista”. Avrebbe senso avere le “osservatrici” in parlamento? Invece questa dis-parità è normale nelle religioni, tutte o quasi. Se diamo un rapido sguardo alle tre grandi religioni monoteiste, tutte sono accomunate da separatezza ed esclusione femminile.
Parlo spesso di scarto tra società che si trasforma e capacità della politica e delle istituzioni a tenere il passo con questo cambiamento. Per le religioni lo scarto è ancor più grande: pensiamo alle donne nel mondo delle Chiese, alle relazioni tra uomini e donne e ai ruoli loro assegnati. Come se non cambiare fosse un dovere, come se la conservazione fosse la loro cifra.
Ogni volta che sento parlare di donne e religione, nella testa mi si accende un segnale luminoso che dice “sacerdozio femminile”. Non voglio essere irrispettosa ma quando Papa Ratzinger ha ribadito pubblicamente che non può esservi sacerdozio al femminile nella Chiesa Cattolica, cito a memoria …noi non possiamo farlo perché il Signore non ce l’ha permesso ed ha dato una forma alla Chiesa con i Dodici Apostoli e con la loro successione (maschile), mi sono chiesta se si fosse posto il problema della contestualizzazione storica. Certo che gli apostoli erano maschi, perché 2000 anni fa le donne non avevano ruolo pubblico. Ma, se si accetta di prescindere dal contesto storico, io reagisco con un paradosso e chiedo: ai tempi di Cristo, com’era la composizione dei consigli di amministrazione? Certo la risposta è che all’epoca non c’erano consigli di amministrazione. Appunto: non c’era ruolo pubblico per le donne, che ora c’è. E’ un paradosso, ma io trovo che sia altrettanto paradossale l’esclusione delle donne.
Mi chiedo se la forza, la potenza della Chiesa non stia proprio in questo conservatorismo che dà certezze, che rassicura, che però comporta uno spreco profondo delle risorse femminili, le loro intelligenze, esperienze, sensibilità, competenze. Anche nella società “secolare” questo spreco è evidente, ma cerchiamo di contrastarlo.
Leggo segni emblematici di resistenza al cambiamento anche nelle esteriorità: ci sono voluti secoli perché gli abiti del clero, maschile e soprattutto femminile, cambiassero. Penso ai vestiti delle suore quasi sempre modelli dell’epoca delle fondatrici.
L’esclusione è però sempre accompagnata da enunciazioni di grande rispetto e apprezzamento. Ma come si concilia il fatto che le religioni lodano le donne, esaltano i loro meriti, ne tessono le lodi, ma chi comanda e gestisce il culto sono sempre ed esclusivamente figure maschili?
Perché nelle religioni è così radicata questa resistenza a leggere l’evoluzione della società e ad assecondandola negli aspetti positivi? E’ un dato che accomuna le tre religioni, pur nelle loro diversità: la resistenza al cambiamento di fondo che si sostanzia nel non voler riconoscere l’eguaglianza di chi condivide la stessa fede, senza distinzione di sesso.
Ho letto recentemente un articolo di suor Eugenia Bonetti (tra le relatrici) pubblicato nell’agosto 2013 su Famiglia Cristiana. Riguardava la lettera apostolica Mulieris Dignitatem sul “Ruolo e la dignità della donna”, scritta 27 anni fa da Papa Wojtyla sul ruolo delle donne nella vita sociale e familiare, ma soprattutto nell’ambito della vita stessa della Chiesa. Esaltando l’impegno femminile nella Chiesa, vi si affermava che «l’ora è venuta in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto». Sono passati quasi tre decenni, le lodi continuano, l’impegno delle donne nella Chiesa, nelle Chiese continua ma il livello di potere non mi pare abbia fatto grandi passi avanti, soprattutto è rimasto il ruolo ancillare delle donne che fanno carriera ma all’interno di questa separatezza di ruoli maschili e femminili e continua ad accendersi in me il segnale luminoso che dice “sacerdozio femminile”.
Sempre nell’articolo che ho citato suor Eugenia Bonetti scriveva: “Dobbiamo saper proporre presenze e servizi non più di subordinazione, ma di uguaglianza e di pari responsabilità”. Nn potrei essere più d’accordo.
Nel suo libro Fattore D Maurizio Ferrera parlava di grande alleanza pro-donne, forse dobbiamo rilanciare l’idea includendo nell’alleanza anche il mondo delle religioni. Non credo ci siano di mezzo dei dogmi, ci sono delle regole che si sono dati gli uomini e allora è possibile cambiarle. Alleanza e buone pratiche da ripetere.
Proprio alcuni giorni fa la Repubblica riprendeva un articolo del Sunday Times che parlava della riscrittura delle preghiere. Il titolo è significativo: “Dio è anche donna. La sfida delle anglicane per riscrivere le preghiere”. Un’organizzazione religiosa della Chiesa di Londra chiamata Watch, acronimo di “Women and the Church”, composta per l’appunto da donne sacerdote, donne vescovo e semplici fedeli, chiede di cambiare le preghiere perché “…quando usiamo soltanto un linguaggio maschile per identificare la figura di Dio rinforziamo l’idea che Dio è un maschio e così facendo suggeriamo implicitamente che gli uomini sono più simili a Dio delle donne” (Emma Percy, cappellana del Trinity College di Oxford). Anche in questo c’entra la storia perché, e ce lo spiega Hillary Cotton, presidente di Watch, l’immagine prevalentemente maschile del Dio cristiano ha radici antiche: “Deriva dall’Impero Romano, da una consuetudine a immedesimare la divinità più importante nei panni di un Re, Signore e Padre”.
Al di là delle preghiere, le buone pratiche cui mi riferisco sono che la Chiesa anglicana ha da anni ammesso le donne al sacerdozio, da un anno il Sinodo ha approvato l’episcopato femminile e mi pare siano già state nominate tre vescove, aprendo la strada al ruolo di arcivescova, la massima autorità in quella Chiesa.
Copiare queste buone prassi? Certamente! Il mio è un invito pressante a superare una resistenza, una incapacità a trasformarsi di pari passo con l’evolversi della società. Non credo sia coinvolto alcun dogma di fede nell’esclusione delle donne dal sacerdozio e dalla carriera (vescovo, cardinale, papa). Solo questione di conservatorismo pervicace.
Ho parlato di amministrazione del culto e dei luoghi di potere dentro la Chiesa ma non posso dimenticare il ruolo di conservazioni che le religioni hanno svolto nella società sul tema dell’uguaglianza tra uomini e donne. Se penso alle donne del mondo islamico, se penso alle donne delle comunità ebraiche ordosse, se penso a mia mamma cristiana sottomessa e felice che non è riuscita a trasmettere alle sue nove figlie il concetto di sottomissione, vedo grandi responsabilità della chiese e delle religioni. E ancor oggi c’è chi sostiene la tesi della sottomissione: proprio alcuni giorni fa Mario Adinolfi ha detto in una intervista: “La moglie sottomessa cristiana è la pietra fondante su cui si edificaa la famiglia. Sottomessa significa messa sotto cioè la condizione per cui la famiglia possa esistere.” Ecco, se penso a tutto questo, mi sembra così ingiusto e fuori dalla storia.
Trasformarsi significa accettare nei fatti, non solo a parole, il principio dell’uguaglianza tra uomini e donne, che non vuol dire, anche nell’ambito delle religioni, omologazione al modello maschile, ma piuttosto parità di diritti e di doveri, parità nell’accesso alle cariche, uguaglianza nelle diversità, accettazione delle diversità senza che queste comportino ordine gerarchico.
Per concludere, penso che ci sono dei principi cui nemmeno l’ambito delle religioni o delle fedi possa sottrarsi: uguaglianza delle persone, libertà nelle scelte (forse per questo nel titolo si parla di libero arbitrio), rispetto della vita umana. So che il significato di questo terzo punto costituisce oggetto di discussione tra Paola Binetti e me, lei pro-life, io pro-choice. Ma alcuni battaglie comuni si possono fare, tra queste quella della parità tra uomini e donne dentro le Chiese.