venerdì 10 Novembre 2017

Iran, interpellanza su condanna a morte del ricercatore Djalali


Il testo dell’interpellanza

Il 21 ottobre 2017, esattamente venti giorni fa, il dottor Djalali, un medico ricercatore iraniano di 45 anni, è stato condannato a morte da un giudice del tribunale rivoluzionario dell’Iran con l’accusa di essere una spia al servizio di Israele. L’esecuzione della condanna a morte potrebbe essere imminente e fare seguito alla scadenza dei venti giorni concessi per proporre un ricorso contro la sentenza.

Il dottor Djalali, che è di cittadinanza iraniana, ma residente in Svezia, è stato arrestato senza mandato o senza un’accusa ufficiale il 24 aprile dello scorso anno mentre si trovava in Iran per un ciclo di conferenze presso le università di Teheran e Shiraz; imprigionati in una sezione speciale del carcere di Evin, gli è stato negato un avvocato ed ha effettuato scioperi della fame e della sete per ribadire la propria innocenza ed ottenere un giusto processo. Ad oggi, restano ignote le prove che ne hanno determinato l’arresto e la condanna.

Il dottor Djalali, medico ed esperto di medicina dei disastri di emergenza, è uno scienziato conosciuto e rispettato nella comunità scientifica internazionale per le sue ricerche e per il suo insegnamento di alta qualità. Dal 1997 al 2007 ha lavorato in Iran nel campo della gestione dei disastri naturali e tecnologici in qualità di ricercatore, docente e programmatore, prima presso il Ministero della salute e poi all’Istituto di ricerca sulle catastrofi naturali.

Nel 2008 ha iniziato un dottorato di ricerca presso il Karolinska Institutet a Stoccolma, e ha poi ottenuto il master europeo di medicina dei disastri presso l’Università di Vercelli e quella di Bruxelles. Dal 2012 al 2016 è stato ricercatore post-doc presso il centro di ricerca Emergencyanddisastermedicine dell’Università del Piemonte Orientale, ed è accademico affiliato a Stoccolma e a Bruxelles. Ha inoltre coordinato vari programmi di formazione e di ricerca della Commissione europea per i sistemi sanitari nel settore della gestione della crisi, dell’istruzione, del terrorismo e degli eventi CBRNE – che è un acronimo che sta per chimici, biologici, radiologici, nucleari ed esclusivi – dei Paesi della UE. Nello stesso tempo ha mantenuto la cooperazione accademica e operativa con le università e i centri di ricerca iraniani per la gestione della crisi e i programmi di difesa passiva, tutti pubblici e non classificati sotto l’aspetto della sicurezza. La motivazione della condanna a morte risiederebbe nella collaborazione del medico ricercatore con Paesi nemici, con un riferimento specifico allo Stato di Israele, ma è stato lo stesso Djalali, secondo quanto riferito in un articolo della rivista Nature, a fornire una ben diversa spiegazione del suo arresto: il dottor Djalali non solo non ha mai coltivato gli interessi di Israele o di qualsiasi altro Stato straniero, ma esattamente, al contrario, il suo arresto sarebbe la conseguenza del suo rifiuto a raccogliere informazioni per conto dei servizi segreti iraniani durante la sua permanenza all’estero; la sua attività di ricercatore lo ha portato infatti a visitare strutture ospedaliere e di ricerca in diversi Paesi, compresa l’Italia.

Di sicuro, come testimoniato da numerosissimi attestati di scienziati e ricercatori, non ultimi i rettori delle università di Stoccolma, Bruxelles e Torino, il dottor Djalali è uno stimatissimo ricercatore che si è occupato del ruolo degli ospedali in caso di catastrofe e della sicurezza degli stessi nell’esposizione a rischi diversi, compresi quelli chimici, batteriologici e nucleari, nonché nella formazione dei professionisti che operano nella risposta ai disastri di varia natura. Al di là della personalità del dottor Djalali, della gravità del fatto che l’accusa e l’arresto di uno scienziato suonano come una pericolosa minaccia alla libertà e all’indipendenza della ricerca scientifica, dell’apparente pretestuosità delle accuse che gli sono state mosse, della modalità del suo arresto e della sua detenzione, proprio per la qualità e la quantità dei rapporti che intercorrono tra l’Italia e la Repubblica Iraniana, per l’amicizia che lega i nostri popoli, non possiamo accettare in silenzio che si allunghi ulteriormente la lista delle esecuzioni capitali inflitte dai tribunali di quel Paese. Per questo, le chiediamo di sapere quali iniziative il Governo italiano abbia adottato nei mesi scorsi, come dichiarato dal Ministro degli affari esteri, Angelino Alfano, il 23 ottobre 2017, e quali ulteriori passi intenda adottare alla luce dell’imminente – proprio oggi – scadenza dei tempi per scongiurare l’esecuzione della sentenza e restituire alla libertà il dottor Djalali.

La risposta del sottosegretario Giro

Presidente, la Farnesina, anche per il tramite dell’ambasciata italiana a Teheran, segue con attenzione il caso del dottor Djalali, cittadino iraniano residente in Svezia che in passato ha collaborato anche con l’Università Statale del Piemonte Orientale; segue la sua situazione sin dal gennaio 2017, quando è giunta la notizia del suo arresto in Iran, nell’aprile 2016, con l’accusa di attività sovversiva e spionaggio.

Abbiamo sollevato il caso più volte con le autorità iraniane, sia a livello diplomatico, con il nostro ambasciatore, che a livello politico, come Farnesina, e continueremo a sensibilizzare Teheran al riguardo. La Farnesina ha affrontato anzitutto, per la prima volta, il tema con l’ambasciatore iraniano a Roma il 7 febbraio scorso. Successivamente, la Ministra fedeli ha sollevato la questione nel corso della sua missione Iran, il 19 e 20 aprile, così come il sottosegretario Amendola, in visita a Teheran dal 2 al 4 maggio scorso. A giugno, l’ambasciatore d’Italia a Teheran ha svolto un passo con il Segretario generale del Consiglio supremo dei diritti umani, Javad Larijani. Il sottosegretario Amendola ha nuovamente ricordato il caso al Viceministro iraniano Ravanchi nel corso della sua missione a Teheran il 5 e 6 agosto scorsi, auspicandone una positiva soluzione in uno spirito umanitario e nel rispetto dell’ordinamento interno iraniano.

Malgrado tali interventi, cui si aggiungono quelli condotti dai partner dell’Unione europea, inprimisdella Svezia, che, in base alla propria normativa nazionale è tenuta a fornire protezione consolare anche agli stranieri residenti sul suo territorio, il 24 ottobre scorso il procuratore generale di Teheran ha dichiarato pubblicamente che Djalali è stato condannato a morte per spionaggio a favore di Israele e contrasto alla volontà di Dio. Il dottor Djalali ha 20 giorni a disposizione per presentare appello. La questione è stata immediatamente discussa inloco dai capi missione dell’Unione europea, e il 28 ottobre scorso l’ambasciata d’Italia si è associata al passo congiunto effettuato dall’ambasciatore della Bulgaria, Paese che rappresenta inloco la Presidenza del Consiglio dell’Unione europea presso il Dipartimento dei diritti umani del Ministero degli esteri iraniano. In tale occasione sono stati ripercorsi i passaggi essenziali del caso Djalali ed evidenziata la preoccupazione dei Paesi e delle pubbliche opinioni dell’Unione Europea per la sentenza a morte recentemente comminata. Sono state altresì ricordate la contrarietà dell’Unione europea alla pena di morte e l’espresso auspicio che si svolga un giusto processo, e che vengano consentite visite regolari al detenuto da parte di conoscenti e familiari.

Da parte iraniana è stato osservato che, sulla base delle informazioni ricevute dal potere giudiziario, si tratta di una questione di estrema sensibilità che attiene alla sicurezza nazionale. Sono state ricordate le dichiarazioni del procuratore generale di Teheran, il quale ha accusato il ricercatore di aver fornito al Mossad informazioni sui siti nucleari e militari della Repubblica islamica, nonché il suo presunto coinvolgimento nell’uccisione di alcuni scienziati iraniani negli anni scorsi. Gli interlocutori iraniani hanno peraltro sottolineato che si tratta di una sentenza di primo grado e che Djalali potrà far ricorso, aggiungendo che, per i casi di condanna a morte, sono previsti meccanismi di tutela aggiuntivi che contemplano anche l’intervento del capo del potere giudiziario. Le autorità iraniane hanno inoltre assicurato che è in fase di organizzazione un incontro tra l’ambasciata interessata e il Consiglio supremo dei diritti umani del potere giudiziario per approfondire le denunce della famiglia del detenuto in base alle quali egli non avrebbe potuto beneficiare di un giusto processo, né gli sarebbe stato concesso di essere difeso dal suo avvocato di fiducia. Il Governo continuerà, in stretto raccordo con i Paesi partner Unione europea, a sollevare la questione con le autorità di Teheran, ponendo enfasi sul legame tra il ricercatore e il nostro Paese e sui risvolti umanitari della vicenda.

La replica di Pia Locatelli

Posso dire che sono soddisfatta per questi continui interventi da parte delle autorità italiane, e mi riferisco all’intervento del nostro ambasciatore, della Ministra Fedeli, dei ripetuti interventi del sottosegretario Amendola e degli interventi dei partner europei. Il caso è stato veramente seguito, ma non ci sono arrivati segnali di speranza da parte di quel Paese rispetto – dal mio punto di vista – ad una restituzione alla legalità di questo scienziato iraniano. L’unica speranza che posso vedere in questo scambio tra autorità iraniane e le autorità italiane ed europee è che si tratta una sentenza di primo grado, quindi possiamo prendere tempo, e avendo tempo forse si possono ulteriormente accentuare le pressioni del nostro Paese nei confronti di quel Paese.

Noi abbiamo una lunga e ricca tradizione di rapporti politici, economici e culturali con l’Iran che meritano la più grande attenzione, e sinceramente ci auguriamo vivamente che proseguano e si sviluppino ulteriormente nell’interesse dei reciproci popoli e del reciproco rispetto, ma ci sono delle cose che noi non possiamo accettare.

Proprio per la solidità e insieme la complessità di questi rapporti chiediamo che le autorità giudiziarie iraniane assicurino al dottor Djalali un trattamento non solo nel pieno rispetto dei diritti umani, ma anche che rispondano positivamente alle denunce fatte dalla famiglia del dottor Djalali di rispetto anche della regolarità di questo giudizio secondo l’ordinamento iraniano. E riteniamo fondamentale che il nostro Paese sia a fianco delle comunità scientifiche internazionali in difesa delle libertà fondamentali dei ricercatori. Noi non possiamo che ribadire con forza il diritto alla libertà della cultura e nella cultura, della ricerca e nella ricerca, a maggior ragione quando c’è di mezzo una condanna a morte, e quindi la vita di un esponente di questa comunità internazionale scientifica.

L’Italia ha abolito la pena di morte e ne sostiene convintamente l’abolizione in tutto il mondo, e, purtroppo, la Repubblica islamica dell’Iran, insieme ad altri Stati, continua a comminare la pena capitale. L’anno scorso, secondo l’Iran Human Rights, le condanne a morte eseguite sarebbero state 530, e, sebbene il dato sia inferiore rispetto al numero annuale delle esecuzioni avvenute negli ultimi cinque anni in quel Paese, con una media di più di una sentenza al giorno, questo rimane il Paese con il più alto numero di pene capitali di cui abbiamo dati abbastanza certi. Forse noi ci eravamo illusi che qualcosa stesse cambiando in quel Paese, che è considerato davvero un partnerimportante politico, oltre che economico e finanziario, dalla comunità internazionale.

Ma come possiamo considerarlo così importante se disconosce in modo così plateale, se nega i principi fondamentali, fondanti, dei diritti umani sanciti nei trattati internazionali? Che interlocuzione internazionale possiamo avere? E, quindi, impedire la condanna a morte del dottor Djalali vuol dire contribuire anche a combattere questa battaglia per i diritti umani in Iran e a combattere la pena capitale. A proposito di pena capitale nel mondo, lo scorso dicembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, con una maggioranza schiacciante, la sua sesta risoluzione in favore di una moratoria sulle esecuzioni, in vista – ci auguriamo, ma intensamente ci auguriamo – dell’abolizione della pena di morte, che è un impegno al quale siamo chiamati tutti noi che ci impegniamo a difendere i diritti umani.

E riteniamo – è una speranza che abbiamo – che sia solo una questione di tempo prima che la pena capitale sia destinata ai libri di storia. Negli ultimi dieci anni, cioè dal 2007 ad oggi, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, come dicevo, ha adottato sei risoluzioni per la moratoria globale sulla pena di morte, con una maggioranza di voti sempre crescente, e da quell’anno 13 Paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati. Ecco, su un totale, la volta scorsa, a dicembre, il 19 dicembre mi pare, di 193 Stati membri delle Nazioni Unite, 117 hanno votato a favore della moratoria e soltanto 40 hanno votato contro e 13 si sono astenuti, che è un passo avanti. Questa risoluzione sulla moratoria stabilisce che la pena di morte è un tema di preoccupazione globale per i diritti umani. Questo percorso, che è positivo, chiaramente non è sempre lineare, perché, se abbiamo visto nuovi Paesi, nel dicembre del 2016, votare a favore della risoluzione, abbiamo anche visto, ad esempio, lo Zimbabwe, che è passato dal voto contrario all’astensione, ma abbiamo anche visto Paesi, come le Filippine, la Guinea, il Niger e le Seychelles, che si sono astenuti, dopo aver precedentemente votato a favore.

Per cui, un percorso, un trend positivo, con, però, delle incertezze. Però, se pensiamo che nel 1945, anno di fondazione delle Nazioni Unite, solo otto dei 51 Paesi di allora, membri di allora delle Nazioni Unite, avevano abolito la pena di morte, allora vediamo il trend positivo. Quindi è un percorso di speranza; però, non basta sperare, questo è il problema.

Non basta sperare, dobbiamo compiere tutte le azioni che sono nella nostra disponibilità; e, per questo, riteniamo sia nostro dovere esercitare, continuare ad esercitare quotidianamente tutte le pressioni possibili sugli Stati con i quali interagiamo in questo momento, in modo particolare con l’Iran, indicando che noi ci opponiamo alla pena di morte in ogni circostanza e senza eccezione, a prescindere dalla natura o dalle circostanze del reato, dalla colpevolezza o dall’innocenza o da altre caratteristiche delle persone coinvolte o dal metodo usato per eseguire la pena capitale, a partire, ovviamente, come dicevo, dal caso che abbiamo sollevato con questa interpellanza, il caso del dottor Djalali, per il quale chiediamo in primis il rispetto delle garanzie della giustizia, ma, soprattutto, la restituzione quanto prima della sua libertà.

L’Italia deve svolgere un ruolo importante in questa che definiamo tragica vicenda, sia attraverso le nostre sedi diplomatiche, che mi pare lo stiano facendo, sia coinvolgendo le istituzioni europee, e in particolare l’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza Federica Mogherini, per scongiurare l’esecuzione della sentenza e restituire la libertà al dottor Djalali.